Il cd allegato
Sfida, sperimentazione spinta, azzardo calcolato: anche nella musica da camera Ravel mostra i tratti più inafferrabili della sua inventiva “da prestigiatore”, che irritava Debussy e Wittgenstein
Quando Ravel faceva arrabbiare Debussy
Risalgo con la memoria ad una lontana intervista a Robert Casadesus, occasione preziosa per cogliere alcuni spunti dell’amichevole frequentazione con Maurice Ravel; il ricordo gustosamente sorprendente ad esempio di quella esecuzione a quattro mani di Ma mère l’Oye quando Casadesus, che sedeva alla sinistra, durante l’episodio centrale di Laideronnette vide il braccio del piccolo Ravel attraversare la sua visuale per toccare la parte bassa della tastiera, aggiungendo una nota non presente nelle parti sul leggio che troveremo invece nella partitura orchestrale. Alla mia domanda, un po’ ingenua, delle particolari difficoltà offerte dalla scrittura del Concerto per la mano sinistra Casadesus rispose argutamente che tali ostacoli riguardavano soprattutto la mano destra, per lo sforzo di impedire di prestar soccorso alla sola mano impegnata. Problema che Alfred Cortot pensava di sciogliere con quella generosa disinvoltura che lo spingeva ad appropriarsi entro il recinto delle due mani delle più disparate composizioni cameristiche, sfidando persino l’arioso violinismo della Sonata di Franck. Naturalmente il proposito di “facilitare” con la distribuzione tra le due mani il Concerto trovò la ferma opposizione di Ravel che già aveva dovuto proteggere la sua opera dalle modifiche portate dallo stesso, facoltosissimo committente, Paul Wittgenstein. Fu una disputa dura per il compositore, il quale alla cena d’onore organizzata per far ascoltare a Ravel in una versione per due pianoforti il Concerto, dato che non aveva potuto assister alla prima esecuzione viennese, senza mezzi termini gli disse “ma non è affatto così”. È la testimonianza di Marguerite Long che la sera prima a Vienna aveva presentato il Concerto in Sol e che aveva accompagnato Ravel al ricevimento, conclusosi bruscamente: Ravel “era in uno stato di tensione che rifiutò l’auto dell’ambasciata e rientrammo a piedi, con un freddo rigido, per fare sbollire la sua irritazione”. Seguirà una lunga puntigliosa disputa giocata sul contrasto tra la ferma richiesta del compositore di un impegno formale al rispetto del testo e la rivendicazione dell’esecutore di una propria libertà di interpretare: “Un impegno formale di tal genere sarebbe intollerabile” replicava Wittgenstein aggiungendo che “tutti i pianisti fanno modifiche, piccole o grandi, in ogni loro concerto”. Resta il fatto che i due si ritrovarono il 17 gennaio 1933 per la prima parigina del Concerto, Ravel sul podio e Wittgenstein alla tastiera, incontro testimoniato da un registrazione che lascia ben intendere nelle tante libertà del pianista come quella disputa fosse sfumata nel nulla; anche se sembra suonare con una celata suggestione l’affermazione di Vuillermoz, richiamata da Hélene Jourdan-Morhange, la violinista che aveva lungamente lavorato a fianco di Ravel, secondo cui “Il y a plusieurs façon d’exécuter Debussy; il n’y en a qu’une
de jouer du Ravel” (Esistono diversi modi per eseguire Debussy; c’è solo uno di interpretare Ravel). Pur con toni meno aspri la stessa situazione si era creata con l’esecuzione del Bolero di Toscanini, cui, guarda caso, sarà rivolta la richiesta, rimasta senza risposta, di tenere a battesimo il Concerto per la mano sinistra. L’episodio ci riporta ad un’acuta affermazione di Dallapiccola il quale pensava che Ravel avrebbe finito per scrivere un Concerto per la mano sinistra anche senza la committenza di Wittgenstein. Ne era convinto anche un direttore come D.E. Inghelbrecht che conosceva profondamente Ravel e sapeva dunque quali moventi segreti operassero nella fantasia del compositore, quello della sfida, nella ricerca di stimoli contrastanti che mettessero alla prova l’invenzione. Una sfida era senza dubbio quella di comporre contemporaneamente i due Concerti per pianoforte, mirati verso obiettivi completamente diversi; quello in Sol concepito con una leggerezza che inizialmente aveva indotto il compositore a intitolarlo Divertissement pensando poi che “non sarebbe stato utile, perché il titolo stesso di concerto dovrebbe chiarire a sufficienza il carattere dell’opera”, così precisava Ravel in una nota intervista a Calvocoressi. Sfida sottile rispetto a quella dell’altro Concerto che nasceva da una provocazione fisicamente pianistica, dal demone del virtuosismo che insidiava la fantasia, da una istigante simulazione che guiderà il compositore verso altri modelli formali; non il classico Concerto mozartiano rivisto attraverso gli ammicchi di SaintSaëns, ma un Concerto romantico, nel peso sonoro soprattutto, ché invece i due strumenti anziché contrastarsi si alternano, entrando in scena separatamente; in comune i due Concerti offrono quegli “effetti jazzistici” che nel Concerto in Sol sono “poca cosa” mentre in quello per la mano sinistra hanno uno spicco più marcato, contrappasso liberatorio entro la forza evocativa del Concerto, forse l’opera più drammatica di Ravel. La simulazione, appunto, atteggiamento che Jankélévitch tempererà come “estetica della scommessa” e Roland -Manuel, più vicino a Ravel, come “estetica dell’impostura”, termine forte che ci rimanda all’insofferenza del compositore per quella “odiosa sincerità, madre di opere loquaci e imperfette”, disagio che Ravel combatteva con quella “bravura” che gli riconosceva anche Debussy, non senza quel senso di “irritazione” che confidava all’amico Louis Laloy, quel suo “atteggiamento di ‘prestigiatore’ o meglio di fachiro incantatore, che fa nascere fiori intorno a una sedia… Disgraziatamente un gioco di prestigio va sempre preparato, e può stupire soltanto una volta”. Ma la bravura in Ravel è un frutto misterioso che sembra trarre linfa dal piacere del gioco, da quella tentazione alla mistificazione che trova dichiarata evidenza in certe pagine dove il gusto del pastiche diventa istigante quanto compiaciuto rovello; penso ai tre brani della seconda raccolta di A’ la manière de divisa con Casella, dove le immagini di Borodin, dell’amato Chabrier e di Gounod si rinnovano attraverso allusivi riverberi. Ma il gioco spesso si spogliava delle ammiccanti piacevolezze per farsi confronto più diretto attraverso l’espediente della privazione; l’arte del togliere, in certo qual modo, ridurre lo stimolo ad un unico ingrediente, come la fissità ritmica del Bolero che si trasfigura in ossessione. Più complesso il processo riduttivo in un’opera suprema quale il Trio, capolavoro che segna una linea di demarcazione nella vita di Ravel, tra l’entusiasmo giovanile animato da tanti progetti e la cupa ombra della guerra che avvolge dolorosamente la sua esistenza pur sospinta da una inflessibile fede nazionalistica. Il Trio nasce nel segno di un impegno costruttivo con cui Ravel intendeva imprimere alla propria immagine un profilo più deciso, ambizione formale dietro la quale si può cogliere un antidoto alle insicurezza che pervadono gli animi. Anche qui una sfida che possiamo cogliere in una lettera all’amico Maurice Delage,
Nel booklet del cd allegato pubblichiamo la guida all’ascolto del Trio per pianoforte e della Sonata per violino e violoncello di Maurice Ravel
anche lui come Ravel arruolato volontario, dove gli annuncia: “Il mio Trio è finito: devo soltanto scrivere i temi” ; lasciando trapelare tuttavia ben altre ansie dietro il disegno: “Sì, lavoro; e con la sicurezza, la lucidità di un folle. Ma, durante questi momenti, anche la malinconia lavora, e all’improvviso, eccomi a singhiozzare sui bemolli!”. Singhiozzi che il pudore dei sentimenti coltivato da Ravel tiene celati così che affiorano trepidamente - Jankélévitsch parlerà di “una canzone imponderabile” - dall’ordinata impalcatura della struttura del primo movimento, così come in quella del Pantoum, intreccio asimmetrico esemplato dal baudelariano Harmonie du soir. La fragranza del gioco si spegne nella Passacaille il cui cupo incedere sembra imprimere sul capolavoro quel marchio di “Trio di guerra” di cui Ravel nel duro lavoro della composizione aveva quel presentimento che cercherà di esorcizzare con il Finale, “igneo e trionfale come probabilmente Ravel non fu mai” (Bortolotto). L’architettura così determinata del Trio sembra prolungare le proprie istanze nella Sonata per violino e violoncello nata otto anni dopo, ma in un’ottica riduttiva che imprime a quest’opera, giudicata da molti come il momento estremo del linguaggio raveliano, l’orma di una sfida che, come sempre nel compositore, serve a celare più oscuri turbamenti: una disciplina - diceva Jean-Richard Bloch - che Ravel si è imposto “comme un Racine” quale un mezzo “de dompter les monstres” (domare i mostri). Lo stesso Ravel riconosceva l’ardimentosità dell’esito: “Credo che questa sonata segni una svolta nell’evoluzione della mia carriera. Lo spoglio vi è spinto all’estremo. Rinuncia al fascino armonico; reazione sempre più netta nel senso della melodia”. Significativa l’annotazione di Bortolotto riguardo alla dedica “à la mémoire de Claude Debussy”, accostata a quella coetanea delle Symphonies d’instruments à vent di Stravinskij, opere che “segnano il momento dell’intransigenza emotiva, un lirismo teso, trattenuto coi denti, un contrappunto di lucenti durezze”. Un Duo, così il primo titolo della Sonata, in cui due strumenti dialogano alla pari, senza distinzione di ruoli. In una lettera scherzosa alla Jourdan-Morhange, che divise con Maurice Maréchal l’impegno del debutto, scriveva alla violinista che avrebbe potuto approfittare della sua assenza “pour jouer à l’unisson avec le violoncelle!”. Per dire della singolarità del rapporto tra i due strumenti: l’autore non permette alcuna seduzione “au charme’ facile; il est nu, le pauvre violon!” lamentava la violinista sottolineando come invece il violoncello “è demoniaco. Ravel, che amava le sfide, gli assegna le tessiture le più ténorisantes” e tuttavia “l’opera ben messa a punto deve dare l’impressione di facilità, di gaia disinvoltura”. Un’opera in cui il compositore si diverte “a modellare un’intera sinfonia servendosi soltanto del pollice e dell’indice”, aveva definito lo straordinario Duo Vuillemoz, a sottolineare un enigmatico gioco di dissimulazione: sfida, sperimentazione spinta, azzardo calcolato, tratti che sono stati letti come “ansia del moderno”. Enzo Restagno, nella sua esemplare monografia ha insinuato alcuni indizi: nel Trio, dove la struttura viene concepita prima del materiale motivico o in quell’estinguersi del battito ritmico nel primo movimento; e ancora nell’idea di labirinto quale itinerario sotteso al Duo per violino e violoncello, o la sensazione di una dimensione sonora portata ai limiti della percezione che sembra turbarci nella Valse e nel torbido brulicare dell’inizio del Concerto per la mano sinistra. Indizi che svaporano di fronte al radicale Boulez del 1949 il quale limitò le spinte in avanti di Ravel con drastica sufficienza, dicendo che il compositore “si dedicò a scoperte precarie che partecipavano, più male che bene, all’ordine già esistente, ma non distruggevano fondamentalmente la sua coerenza”. E tuttavia?턢