I 1600 anni di Venezia: la città della musica raccontata da due veneziani d’adozione, Lucia Ronchetti e Pier Luigi Pizzi
Le sperimentazioni sonore di Monteverdi e Nono, da San Marco alla Biennale. E l’invenzione del melodramma, dalla “Poppea” a Stravinskij, dalla tradizione goldoniana a Britten. Passando per le grandi prime di Rossini e Verdi alla Fenice. Due percorsi rievocati da Pier Luigi Pizzi e Lucia Ronchetti, veneziani d’adozione. Per festeggiare i 1600 anni della città eterna della musica
Sarà difficile non pensare all’Attila per i melomani che quest’anno passano da Venezia. Il 1600esimo compleanno della città rimanda immediatamente all’ultima scena del prologo, quando gli esuli di Aquileia approdano in laguna e decidono di innalzare un altare, fondando la futura Serenissima “dall’alghe di questi marosi, qual risorta fenice novella”, come canta Foresto in una cabaletta forse non raffinata ma di grande effetto, omaggio al teatro che ospitò la prima dell’opera. Così Verdi. Ma da Monteverdi a Rossini, da Cavalli a Vivaldi, e poi Britten, Stravinskij, Malipiero, Nono e così via, schiere di compositori da ogni secolo ci confermano che Venezia è davvero la città eterna della musica.
“Se cerco un’altra parola per dire musica, trovo sempre e solamente la parola Venezia” scriveva Nietzsche in Ecce homo. E non si può dargli torto, come del resto confermano oggi due artisti legati alla città per ragio
ni diverse. Si tratta del regista e scenografo Pier Luigi Pizzi, che da quasi trent’anni si è trasferito a San Polo, e che in questo momento è impegnato nell’allestimento di una mostra che celebra i sedici secoli veneziani che si inaugurerà il prossimo settembre a Palazzo Ducale (“VENETIA 1600. Nascite e rinascite”); e della compositrice Lucia Ronchetti, nuova direttrice della Biennale Musica che ha da poco presentato la sua prima rassegna dedicata al trattamento compositivo della voce. Proviamo a ripercorrere con loro, da due prospettive profes
sionali e generazionali differenti, il rapporto privilegiato tra Venezia e la musica.
Il titolo della prossima Biennale è
Choruses – Drammaturgie vocali. In diverse interviste lei parla dell’urgenza di un recupero della tradizione musicale, soprattutto vocale, della Venezia del Cinquecento. In che senso?
Lucia Ronchetti “Dal mio punto di vista, avendo sempre lavorato molto sulla musica vocale, un anno fondamentale è il 1527, quando Adrian Willaert divenne maestro di cappella a San Marco. Ma il 1527 è anche l’anno del sacco di Roma, in seguito al quale moltissimi musicisti emigrarono a Venezia, dove si posero le basi per la scrittura polifonica vocale che vale ancora oggi. Willaert favorì poi la nascita di una scuola di allievi, tutti geniali, come Cipriano de Rore, Claudio Merulo, Gioseffo Zarlino, Nicola Vicentino, Andrea Gabrieli, che resero la San Marco del Cinquecento l’equivalente della Philharmonie di Berlino per noi: un luogo che tutta l’Europa musicale di allora considerava un riferimento. Ancora oggi molti compositori si rivolgono a quel mondo, e questo conferma che non sempre vale la storiografia cronologica, al contrario spesso è più importante favorire momenti di contatto tra mondi lontani nel tempo”.
Può farci alcuni nomi di compositori legati a questo recupero?
Ronchetti: “Musicisti come Maderna, Nono, Malipiero, lavorando alla Biblioteca Marciana, capirono per primi il valore di questo repertorio; anche Sylvano Bus
sotti e Luciano Berio hanno scritto dei capolavori per ensemble vocali a cappella; poi è arrivato un genio della scrittura vocale come Salvatore Sciarrino, con un ordito contrappuntistico molto complesso in cui però il testo torna a essere percepibile; infine penso ai più recenti lavori di Luca Francesconi, Francesco Filidei e Marta Gentilucci”.
Tornando alle date fondamentali, il passo successivo è l’inaugurazione nel 1637 del primo teatro d’opera aperto al pubblico, il San Cassiano. Da quel momento inizia una impressionante proliferazione di teatri e impresari in tutta Venezia. Oltre che di compositori, innanzitutto Claudio Monteverdi.
Pier Luigi Pizzi “Dal Seicento in poi si comincia a parlare concretamente di opera. Monteverdi si esprime prima a Mantova, con L’Orfeo, ancora legato alla favola, a Poliziano, alla corte. Invece trent’anni dopo arrivano Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea, che rappresentano un altro universo. Quando ci si applica sull’intera trilogia, non si può non tenere conto che le tre opere nascono in momenti diversi della vita di Monteverdi. La tensione drammatica che le regola cambia completamente. D’altronde il pensiero di Striggio non è paragonabile a quello di Badoer e ancora meno a quello di Busenello: Poppea è un personaggio proiettato in un futuro più libero, più emancipato, in sintonia con l’evoluzione della vita veneziana”.
Anche l’opera di Francesco Cavalli è stata una delle più significative del Seicento veneziano.
Ronchetti “Qualche anno feci una rivisitazione del Giasone, eseguita poi alla Staatsoper di Berlino con il titolo Lezioni di tenebra. Quest’opera di Cavalli fu uno dei grandi successi del secolo, al punto che in tutta Europa esistono ben dodici manoscritti: circostanza che fa capire quanto sia stata esportata ed eseguita. Per me è una sorta di Bibbia per il modo in cui compositore e il suo geniale librettista, Giacinto Andrea Cicognini, riuscirono scolpire teatralmente musica e parola, rendendo chiara e comprensibile un’azione complicatissima in un’epoca in cui non esistevano i registi. Per certi versi è quasi un testo filosofico sul
la cecità umana, sull’impossibilità di Giasone di controllare il suo destino e il suo futuro.
Pizzi “Di Cavalli ho messo in scena Gli amori di Apollo e Dafne per inaugurare un festival di musica barocca fondato da Alberto Zedda al Teatro della Fortuna di Fano. Si intitolava ‘A vagheggiare Orfeo’, e purtroppo durò solo il tempo di due edizioni, ma ebbe risonanza internazionale. Con Cavalli si entra nel vivo del teatro barocco, con nuove prospettive. Per me Barocco è sinonimo di libertà: se il Rinascimento ripropone gli stili classici con una nuova originalità, sviluppata e canonizzata nel Manierismo, il Barocco rimette tutto in discussione. In architettura gli elementi possono essere gli stessi: si pensi alla colonna, all’architrave, ma in epoca barocca vengono utilizzati in modo completamente imprevedibile. Lo stesso discorso vale per la musica, che non si lega alla parola in modo rigido e pedante, ma segue proposte inusuali, in continua libertà di interpretazione”.
Uno dei momenti fondamentali della riscoperta del teatro barocco nel Novecento fu la produzione dell’Orlando di Vivaldi del 1978.
furioso
Pizzi “Per quell’operazione sono partito dal teatro della meraviglia, nato con l’intento di generare stupore. Ho voluto svelare i meccanismi segreti della magia scenotecnica, diversamente dai grandi scenografi del Seicento, da Torelli ai Galli da Bibbiena, le cui macchine agivano sempre di nascosto. A me interessava il contrario: volevo che tutto fosse visualizzato e umanizzato, come chiave di lettura dello spettacolo. La musica in tal modo diventava il vero e proprio motore della rappresentazione: immagini e personaggi prendevano macchinalmente possesso di uno spazio metafisico. In fondo la macchina ha sempre fatto parte del teatro: basti pensare al ‘deus ex machina’ dei greci, che faceva apparire la divinità prodigiosamente”.
La grande stagione rossiniana è il passo musicale successivo più rilevante per Venezia, in particolare Tancredi e Semiramide, che rappresentano il principio e il compimento di un percorso stilistico tra i più sperimentali mai realizzati.
Pizzi “Prima ho messo in scena Semiramide, nel 1980 a Aix-en-Provence, e due anni dopo il mio primo Tancredi, a Pesaro, successivamente ripensato e rielaborato varie volte per un totale di cinque diverse edizioni. Semiramide per me è legata al mondo barocco della tragédie lyrique. A Aix, con Marilyn Horne e Monserrat Caballé, la interpretai attraverso il filtro neoclassico di un coro contemporaneo a Rossini che assiste a una rappresentazione nello stile di teatro del Grand Siècle. Consideravo l’opera come l’ultimo sguardo di Rossini su un mondo ormai al tramonto, ma senza nostalgia: la celebrazione di un’epoca gloriosa del teatro musicale che andava da Rameau a Gluck, ormai consunta. Al contrario Tancredi è la stupefatta scoperta da parte di Rossini di un pensiero romantico e della giovinezza, con i suoi ‘tanti palpiti’. Ho sempre considerato quest’opera una sorta di viaggio iniziatico di Tancredi, eroe puro con un’idea assoluta e sublime dell’amore, messa a dura prova da separazio
ni, tradimenti veri o presunti, solitudine e infine morte. Nel corso degli anni ho provato tante diverse soluzioni, dal finale lieto di Venezia a quello tragico di Ferrara e a quello nuovamente lieto di Milano, e mi sono convinto che solo il finale tragico riesca a sublimare il percorso drammatico del personaggio: in un’opera irragionevole è forse la soluzione più logica. Nelle successive versioni ho agito per sottrazione. Se potessi farne oggi una nuova versione, sarebbe ancora più essenziale: due giovani cantanti, e nient’altro”.
Anche I Capuleti e i Montecchi di Bellini, nati sempre per la Fenice, affrontano il tema dell’amore assoluto.
Pizzi “Ma c’è qui uno struggimento che manca a Rossini. Il teatro rossiniano è al limite tra verità e finzione, sempre con un largo margine di ironia. Bellini invece ci crede, e ci commuove. È stata la prima opera che ho fatto con Riccardo Muti da regista, al Covent Garden, una produzione fortunata che ha fatto il giro del mondo”.
Un grande successo della Fenice degli anni settanta fu Belisario di Donizetti con Leyla Gencer e direzione di Gianandrea Gavazzeni.
Pizzi “Per realizzare quest’opera di ambiente bizantino avevo in mente una sorta di iconostasi, ma avevo bisogno di un semplice dispositivo scenico volumetrico non realistico: l’ispirazione mi venne dagli osservatori astronomici, quello di Maragheh in Persia e di Jaipur in India. Per i costumi mi ha aiutato Mariano Fortuny: alcuni erano addirittura abiti originali di una sua allieva, Maria Gallenga, acquistati da Umberto Tirelli, complice per anni del mio lavoro”.
A un certo punto, nel tardo Ottocento, Venezia cominciò a essere frequentata dagli artisti forse più per il suo fascino decadente che per il suo fermento.
Ronchetti “Ma questa fase, in cui una parte della tradizione veneziana venne abbandonata e molte cose furono dimenticate, fu soltanto una parentesi. La nascita della Biennale conferma che la politica italiana puntò proprio su Venezia per produrre la nuova musica. Sono convinta che la creatività musicale, al pari della ricerca scientifica, si possa sviluppare solo a patto che i responsabili culturali decidano di mettere gli artisti in
una buona condizione, sia logistica sia mentale. Mi viene in mente un esempio del passato, quando nel Cinquecento a Ferrara si sviluppò il ‘concerto delle donne’ alla corte di Alfonso II d’Este, che decise di finanziare una nuova ricerca sulla vocalità con quattro cantanti che erano praticamente delle Cathy Berberian: Anna Guarini, Laura Peperara, Livia D’Arco e Tarquinia Molza. Ma poco tempo dopo la morte del duca, il marito di Anna Guarini la uccise in maniera brutale, facendola a pezzi con un’accetta, per una presunta infedeltà. E così quell’esperienza artistica così preziosa finì violentemente”.
Nel corso del Novecento ci sono state alcune importanti esperienze a Venezia che hanno permesso una riflessione sui rapporti imprevedibili tra musica e spazio. Penso in particolare alla famosa arca di Renzo Piano costruita a San Lorenzo per il Prometeo di Luigi Nono.
Ronchetti “Non è accaduto solo nel Novecento. Da sempre Venezia stimola le sperimentazioni. Ad esempio le quattro voci di base definite da Zarlino, vale a dire soprano, contralto, tenore, basso, insieme al modo in cui il testo si distribuisce tra loro, venne influenzato dall’architettura di San Marco, che favorì una nuova idea di spazializzazione delle voci nella composizione. Un altro aspetto speciale di Venezia è ovviamente l’acqua, dove in passato spesso sono avvenute delle rappresentazioni. Penso al mitico Bucintoro, la galea che i Dogi usavano per lo sposalizio con il mare, sempre con dei musicisti a bordo. Si racconta che un giorno Alfonso II d’Este arrivò a Venezia con trenta cantori e strumentisti, che fecero una performance musicale da mezzanotte alle tre sul Canal Grande; nel documento si legge: ‘che li tene drieto tuta Vineggia’. Immaginiamoci il pubblico lungo il canale e la rappresentazione che si muove: mi sembra un’idea straordinaria di diffusione del suono. Mi piacerebbe recuperare queste esperienze con i compositori giusti in vista della Biennale del 2022, che sarà interamente dedicata al teatro sperimentale sia strumentale sia vocale”.
Questo ritorno alla vocalità si potrebbe forse legare all’esigenza di ritrovare un contatto con il nostro strumento organico, a causa dell’esperienza della pandemia?
Ronchetti “Può darsi, in effetti ultimamente ho notato un’accelerazione in questa esplosione del repertorio vocale che si osserva da almeno vent’anni. Veniamo da più di un anno di sofferenze inaudite, e non c’è dubbio che la pandemia ci abbia messo di fronte alle nostre fragilità, così come era avvenuto nel periodo precedente con la guerra in Siria. Ogni volta che sono costretti a una riflessione sulla provvisorietà umana, i compositori guardano al passato, spesso anche al lato sacro della composizione musicale, indipendentemente dalla loro fede. Ed è indubbio che l’organo vocale sia quello che meglio esprime un legame con la biografia di chi scrive musica. Nel programmare la rassegna di quest’anno, ho cercato di scegliere dei brani importanti che andassero nella direzione della bellezza dell’ascolto senza creare un ulteriore livello di angoscia. Non vuol dire che sarà un festival leggero, ma non voglio che il pubblico sia schiaffeggiato da una proposta troppo violenta, visto il periodo che stiamo vivendo”.
La malattia e la fragilità sono al centro di un’altra opera che non potrebbe essere più veneziana, Death
in Venice di Britten, che proprio alla Fenice ebbe la sua prima rappresentazione italiana.
Pizzi “È un’opera che amo particolarmente e che ho messo in scena anche a Venezia. Ho voluto di proposito dimenticare il film di Visconti, nonostante lo ammirassi molto esteticamente. Ho cambiato l’epoca dell’ambientazione, ma facendo in modo che restassero delle affinità, una in particolare: essere alla vigilia di un grande evento bellico. Così ho scelto gli anni quaranta, e per tradurre il presentimento di un morbo fatale, ho creato una città priva di colore e di vita. Come dice il libretto: ‘Ambigua Venezia, dove l’acqua si è scambiata con la pietra, dove la passione confonde i sensi’”. 턢