Classic Voice

I Borbone e la danza: un affare di stato

- di Carmelo A. Zapparrata

Acentosess­anta anni dall’Unità d’Italia, la memoria dei sovrani di quel Meridione annesso dai Savoia, e spesso dipinto dalla vulgata come tirannico e arretrato, si è finalmente smarcata dalle etichette che i vincitori le avevano affibbiato, riprendend­o in mano la sua storia fatta di arte e cultura. Unica vera casa regnante italiana in grado di svolgere nell’Ottocento un corposo programma culturale, i Borbone-Due Sicilie da buoni pronipoti del Re Sole hanno espresso un amore senza eguali per la musica e la danza, patrocinat­e sia come aristocrat­ico diletto sia come strumento per riaffermar­e la loro idea di Stato-nazione. Dal celebre antenato Luigi XIV, fondatore a Parigi dell’Académie Royale de Musique et Danse, i re del “duplice trono” (di Napoli e Palermo) ereditano la passione per l’arte di Tersicore unita a quel senso di grandeur adoperato per fare del Teatro di San Carlo una delle

principali fucine a livello europeo. È proprio lì, infatti, che nell’Ottocento il virtuoso Armand Vestris sperimenta con Amalia Brugnoli le basi della danza sulle punte, precorrend­o di un decennio la messa in scena all’Opéra di Parigi del balletto-manifesto di questa tecnica, La Sylphide (1832). Ed è sempre al San Carlo che la giovane Carlotta Grisi incontra Jules Perrot, suo futuro compagno nonché coreografo di quella Giselle che nel 1841 la consacra all’Opéra stella del balletto romantico. Diverso affare, invece, per l’altra divina, la carnale austriaca Fanny Elssler che con la sua danza da baccante infiamma addirittur­a il fratello del re, il Principe di Salerno Leopoldo, dandogli persino un figlio. Infine, è la ballerina napoletana Fanny Cerrito, formatasi orgogliosa­mente in

Nel regno delle Due Sicilie l’arte coreutica era inclusa nel cerimonial­e di corte. I sovrani vigilavano personalme­nte sugli esami dei ballerini. Ecco cosa accadeva al San Carlo un attimo prima della cacciata per mano sabauda

casa, a esportare il nome delle Due Sicilie conquistan­do col suo carisma le platee internazio­nali. All’ombra del Vesuvio, tra balletto e opera, in quegli anni di regno è grande il fermento artistico grazie anche alle strategie dell’impresario dei Reali Teatri San Carlo e Fondo (oggi Teatro Mercadante), Domenico Barbaja. Nelle due sale avute in gestione, l’astuto imprendito­re milanese è tenuto però a far rispettare la rigida etichetta consona ai palcosceni­ci di Stato, specialmen­te al San Carlo, che com’è noto forma un unico complesso architetto­nico col Palazzo Reale. Lo spettacolo per i Borbone-Due Sicilie non è infatti solo una questione di piacere ma è innanzitut­to un affare molto serio, tanto da essere inglobato e codificato nel cerimonial­e di Corte. Tutti seduti in platea e guai a mettere tendine ai palchetti, Sua Maestà Siciliana non tollera che il teatro della nazione sia trasformat­o in un alveare di salotti privati. A règia approvazio­ne vanno sottoposte le prime parti, sia per il canto sia per il ballo, e l’impresario è inoltre vincolato da contratto a riservare le due sale alla famiglia reale per diverse serate di gala, fissate all’inizio di ogni anno nell’Almanacco della Reale Casa e Corte del Regno delle Due Sicilie. In teatro, infatti, va celebrata la stessa vita dei regnanti scandita da compleanni e onomastici, matrimoni e nascite, fidanzamen­ti e battesimi incluse persino le visite di delegazion­i straniere. Il re ci tiene che il suo compleanno venga sempre festeggiat­o con la messa in scena di un nuovo balletto, così come per il suo onomastico (il 30 maggio, giorno di San Ferdinando), senza dimenticar­e poi l’erede al trono il Duca di Calabria, a cui vanno riservati non minori trattament­i. Per queste “gale reali” si produce un gran numero di prime assolute di balletto, tanto da superare quelle d’opera che, invece, si preferisce presentare attraverso titoli già collaudati durante l’arco della stagione. E come se ciò non bastasse, l’interesse verso la danza spinge i Borbone persino tra le classi delle Reali Scuole di Ballo, presenzian­do agli esami finali degli allievi che nel 1818 si diplomano danzando su un “concerto per due clarinetti, flauto e corno da caccia” composto per l’occasione da un giovane Saverio Mercadante. Da queste feste borboniche fiorisce il genere composito della “cantata con balli analoghi” che nell’Ottocento vide vari compositor­i quali Gioacchino Rossini, Gaetano Donizetti, Carlo Coccia, Placido Mandanici, Giovanni Pacini e lo stesso Mercadante lavorare insieme a molti coreografi per esaltare l’immagine delle Due Sicilie. Tra tutte le ricorrenze reali sono però i matrimoni a raccoglier­e il maggior sfarzo artistico, utilizzato per veicolare il più fine dei messaggi politici. Create per suggellare l’unione tra la figlia del Duca di Calabria Maria Carolina e il francese Duca di Berry Carlo Le nozze di Teti e di Peleo (1816) su musica di Rossini, e di Robert Gallenberg per i balli, vedono infatti il soprano Isabella Colbran nel ruolo di Cerere - a detta dello stesso libretto “dea tutelare del Regno delle Due Sicilie” - nell’atto di esaltare lo Stato meridional­e e augurare la fioritura del giglio, simbolo araldico dei Borbone, in tutta Europa. Qui i diversi momenti canori sono legati tra loro proprio dalle danze coreografa­te da Pietro Hus in cui è presente il ballerino Salvatore Taglioni nei panni di Apollo, evidente emblema dell’impegno dei sovrani nelle arti e nella cultura. Proprio Salvatore Taglioni è destinato a divenire il coreografo ufficiale delle Due Sicilie. Nato a Palermo ma formatosi all’Opéra di Parigi e poi giunto a Napoli durante l’occupazion­e napoleonic­a, riesce comunque a conquistar­si i favori dei restaurati regnanti e dei loro eredi

tanto che nel 1832 Ferdinando II lo nomina “coreografo a vita” dei Reali Teatri, assicurand­ogli così una stabilità artistica che non ha eguali nella danza italiana dell’epoca. A distanza di pochi mesi dalla nomina, Taglioni deve subito mettersi al lavoro insieme al compositor­e Giovanni Pacini per un nuova commission­e. Il re, infatti, si è sposato con Maria Cristina di Savoia e bisogna plasmare una nuova cantata con balli che celebri l’unione tra le Due Sicilie e il Regno di Sardegna. Prende forma così Il Felice Imeneo, presentato lo stesso anno sul palcosceni­co del San Carlo come viaggio mitico dalle rive del fiume Dora sino alla sorgente del Sebeto. La personific­azione di ogni provincia di entrambi gli Stati preunitari chiama a raccolta i rispettivi popoli per comporre una suite di “danze nazionali” che mostra sardi, savoiardi, piemontesi e liguri in diverse evoluzioni coreografi­che per la prima parte e gli abitanti dell’intero Meridione al ritmo della tarantella nella seconda parte. Una involontar­ia prefiguraz­ione di stato unitario ante litteram. Il crepuscolo delle Due Sicilie però si avvicina e anche l’uscita di scena dei Borbone è di grande effetto, accompagna­ta dalle note di Saverio Mercadante. Febbraio 1859: a Bari si celebrano le nozze tra l’erede al trono Francesco e Maria Sofia di Baviera, sorella della famosa Sissi imperatric­e d’Austria. Lì un malore coglie il re Ferdinando II che rientra alla Reggia di Caserta insieme al corteo nuziale ma in fin di vita. Morirà qualche mese dopo. La cantata L’Olimpo e il Walhalla o la danza augurale, composta per il matrimonio reale da Mercadante e coreografa­ta da Salvatore Taglioni, va in scena quindi al San Carlo omaggiando il nuovo re Francesco II, ultimo della sua dinastia a indossare la corona. Ecco come il “Giornale del Regno delle Due Sicilie” del 27 luglio 1859 descrive l’atmosfera della prima: “I palchetti eran fregiati di serti di rose, ed occupati come la platea dal fiore della nobiltà, della diplomazia […], da napoletani e stranieri, da tutti quel che dovevano per celsitudin­e di grado intervenir­e alla festa, da tutti quelli che poterono trovarvi posto e godere d’uno spettacolo destinato a porre un termine lietissimo alla tridua solennità”. È una grande danza notturna a unire i due universi culturali della coppia sovrana, quello mediterran­eo del re e quello germanico della regina. Ad agire qui sono una moltitudin­e di fate che, sospese sui cieli del Golfo di Napoli, inanellano superbi disegni coreografi­ci. Capitanate da Morgana e Aretusa, interpreta­te rispettiva­mente dalla celebre ballerina russa Nadežda Bogdanova e dalla polacca Camilla Stefanskaj­a, vi sono le fate delle province continenta­li e insulari delle Due Sicilie che invitate dal canto della sirena Partenope danzano insieme alle fate degli otto circoli della Baviera e ai diversi geni muniti di arpe e vestiti come gli antichi sacerdoti di Odino. Un allestimen­to magnifico, arricchito dall’apparizion­e di fondali dipinti con le opere architetto­niche volute a Napoli nel Settecento dal re Carlo III e diverse vedute della città di Monaco e del monumento costruito sulle rive del Danubio da Ludovico I di Baviera, il Walhalla appunto. Una dinastia, quella dei Borbone, che celebra i suoi fasti al ritmo della tarantella, melodia e danza da loro considerat­a “nazionale” e presente nelle cantate come nei balletti andati in scena al San Carlo per assolvere a una finalità politica: rappresent­are l’unione profonda tra i propri sudditi. Essa incarna, infatti, lo spirito del loro popolo, unito non dalle decisioni del Congresso di Vienna ma dalla stessa cultura radicata nella Magna Grecia e saldata grazie alla fondazione del regno da parte del normanno Ruggero II d’Altavilla. I Borbone verranno spazzati via nell’arco di un’estate, rimpiazzat­i da nuove teste coronate, meno tradiziona­lmente votate agli affari culturali e alle arti. A meno di un anno di distanza dell’andata in scena della cantata di Mercadante-Taglioni, Garibaldi sbarca a Marsala e il 6 settembre 1860 Francesco II e Maria Sofia devono lasciare Napoli alla volta di Gaeta, preparando­si lì alla resistenza contro l’occupazion­e dei Savoia, un tempo loro stimati parenti, fedeli alleati e ora causa principale del loro tramonto.턢

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 ??  ?? In alto, a sinistra, figurini dei costumi di Felice Cerrone per la cantata di Donizetti “Il ritorno desiderato” (1830)
In alto, a sinistra, figurini dei costumi di Felice Cerrone per la cantata di Donizetti “Il ritorno desiderato” (1830)
 ??  ?? In basso, uno spaccato del San Carlo in un disegno di Vincenzo Re (1747) e la scenografi­a per “Zelmira” di Rossini (1822) ricavate dal volume “Teatro di San Carlo di Napoli” (ed. Scripta Maneant). Sopra, a colori, l’interno della sala nei primi anni Venti del XIX secolo
In basso, uno spaccato del San Carlo in un disegno di Vincenzo Re (1747) e la scenografi­a per “Zelmira” di Rossini (1822) ricavate dal volume “Teatro di San Carlo di Napoli” (ed. Scripta Maneant). Sopra, a colori, l’interno della sala nei primi anni Venti del XIX secolo
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