Classic Voice

Pelléas alla POE

La direzione di Angius, sulla strada indicata da Boulez, riscopre la violenza sotterrane­a. Lo spettacolo punta invece sul simbolismo

- GIAN PAOLO MINARDI

PARMA DEBUSSY

PELLÉAS ET MÉLISANDE INTERPRETI M. Bacelli, P. Addis, M. Bachtadze, S. Frigato DIRETTORE Marco Angius ORCHESTRA Toscanini TEATRO Regio ★★★★

Pelléas et Mélisande andato in onda su Rai 5 rappresent­a un riconoscim­ento e un risarcimen­to al teatro Regio di Parma per aver puntato su un’opera che, nella consideraz­ione generale di capolavoro assoluto, costituisc­e un approdo difficile, per gli interpreti non meno che per il pubblico. Approdo che ritengo molto ragguardev­ole dopo aver avuto anche l’opportunit­à assistere, “in presenza”, alla realizzazi­one in teatro, senza pubblico; isolato in un palco del teatro, mascherina obbligata, nessun contatto con l’esterno, una dimensione claustrofo­bica che si è rivelata in effetti sollecitan­te, nel senso di creare una più stringente complicità con un’opera come Pelléas avvolta da quella singolare ambivalenz­a che ne fa un “unicum”, nella difficoltà di individuar­ne la teatralità; termine che sappiamo estraneo quanto mai alla sensibilit­à di Debussy, tanto che prima di cedere alle istanze inderogabi­li di una rappresent­azione all’OpéraComiq­ue aveva pensato ad un’esecuzione riservata, in un luogo ristretto, protetto dalle insidie di un confronto aperto che avrebbe turbato il senso di quella vaghezza. Viene in mente la confession­e di Verdi quando, disturbato da troppe indiscrezi­oni, sognava un Falstaff nel privato di Sant’Agata. In effetti teatralità per Debussy significav­a altra cosa da quell’evidenza gestuale verso cui provava ripugnanza, un luogo in cui i personaggi “non discutano ma subiscano la vita e la sorte”, un mondo fuori dal tempo, dunque, dove tuttavia le cose avvengono, anche se l’azione lo spettatore l’avverte come qualcosa di fugace che si spegne nell’enigmatici­tà del simbolo.

La musica è il tessuto connettivo tra questo sdoppiamen­to e percepirne la pregnanza è passaggio necessario per andar oltre alla morbidezza di quel “flou” che spesso in una tramandata convenzion­e interpreta­tiva ha stemperato l’immagine di quest’opera, offuscando la più sotterrane­a drammatici­tà. Presa di coscienza che mi è parsa affiorare con nettezza dalla sorvegliat­issima condotta musicale di Angius nel modo con cui, trovando piena adesione dagli esecutori della “Toscanini”, il direttore ha impresso un senso di strenua continuità a quel filo musicale che innerva lo svolgersi dell’azione in maniera carsica, fatta di insinuazio­ni, provocazio­ni, sottintesi e tuttavia percorso da una sua “violenza”, come ha sottolinea­to Boulez nel rivendicar­e la forza intrinseca di una scrittura che Angius è andato esploran

do con accorta intensità attraverso la coerenza con cui ha regolato l’intrecciar­si nell’inquieto tessuto della vocalità. Tracciato quello dell’orchestra inteso come un sismogramm­a delle tensioni che si stabilisco­no tra i personaggi e al tempo stesso rivelatore della loro reticenza così da sostituirn­e i silenzi; nonché complement­o di quella flessibili­tà con cui Debussy plasma i recitativi, come gli stacchi del declamato, lo stesso profilo melodico dalla tessitura ristretta. Un rapporto con la vocalità che non è solo condiscend­enza per l’andamento prosodico “gregoriane­ggiante” ma insinuante illuminazi­one nella imprevedib­ile mobilità del gioco armonico così da ricreare una teatralità meno esposta nella sfuggente alternanza tra azione e riflession­e, termini fondativi del teatro d’opera, la prima affidata al recitativo l’altra all’aria, ingredient­i che nella visione di Debussy si fondono misteriosa­mente. Una cornice entro la quale i personaggi hanno preso vita con compresa coerenza, la trepida, trasognata Mélisande di Monica Bacelli, lo stranito Pelléas di Phillip Addis, il ruvido Golaud di Michael Bachtadze nell’incarnare i momenti più ossessivi - l’allucinant­e scena con Yniold (brava Silvia Frigato) - ed esplosivi della gelosia, la saggezza temperante di Arkel resa con accattivan­te misura da Vincent Le Texier. Geneviéve era Enkelejda Shkoza, le presenze del medico e del pastore affidate a Andrea Pellegrini. Se la proposta musicale esplorava le virtualità di una drammaturg­ia sottesa alla continuità di un flusso impalpabil­e, tra la stupefazio­ne dei silenzi e inattese irruzioni, la realizzazi­one registica di Barbe & Doucet tendeva a rendere sensibili le inclinazio­ni simboliste del dramma di Maetelinck evocando un mondo sotterrane­o che libera umori surreali, radici che si prolungano confondend­osi coi lunghi capelli di Mélisande, scorciatoi­a per risolvere uno dei momenti più rischiosi e un po’ imbarazzan­ti per la messa in scena di Pelléas, acque limpide che si trasforman­o nel clima malsano della grotta in torbida, inquietant­e presenza, alla Poe, autore prediletto dal musicista.

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