Pelléas alla POE
La direzione di Angius, sulla strada indicata da Boulez, riscopre la violenza sotterranea. Lo spettacolo punta invece sul simbolismo
PARMA DEBUSSY
PELLÉAS ET MÉLISANDE INTERPRETI M. Bacelli, P. Addis, M. Bachtadze, S. Frigato DIRETTORE Marco Angius ORCHESTRA Toscanini TEATRO Regio ★★★★
Pelléas et Mélisande andato in onda su Rai 5 rappresenta un riconoscimento e un risarcimento al teatro Regio di Parma per aver puntato su un’opera che, nella considerazione generale di capolavoro assoluto, costituisce un approdo difficile, per gli interpreti non meno che per il pubblico. Approdo che ritengo molto ragguardevole dopo aver avuto anche l’opportunità assistere, “in presenza”, alla realizzazione in teatro, senza pubblico; isolato in un palco del teatro, mascherina obbligata, nessun contatto con l’esterno, una dimensione claustrofobica che si è rivelata in effetti sollecitante, nel senso di creare una più stringente complicità con un’opera come Pelléas avvolta da quella singolare ambivalenza che ne fa un “unicum”, nella difficoltà di individuarne la teatralità; termine che sappiamo estraneo quanto mai alla sensibilità di Debussy, tanto che prima di cedere alle istanze inderogabili di una rappresentazione all’OpéraComique aveva pensato ad un’esecuzione riservata, in un luogo ristretto, protetto dalle insidie di un confronto aperto che avrebbe turbato il senso di quella vaghezza. Viene in mente la confessione di Verdi quando, disturbato da troppe indiscrezioni, sognava un Falstaff nel privato di Sant’Agata. In effetti teatralità per Debussy significava altra cosa da quell’evidenza gestuale verso cui provava ripugnanza, un luogo in cui i personaggi “non discutano ma subiscano la vita e la sorte”, un mondo fuori dal tempo, dunque, dove tuttavia le cose avvengono, anche se l’azione lo spettatore l’avverte come qualcosa di fugace che si spegne nell’enigmaticità del simbolo.
La musica è il tessuto connettivo tra questo sdoppiamento e percepirne la pregnanza è passaggio necessario per andar oltre alla morbidezza di quel “flou” che spesso in una tramandata convenzione interpretativa ha stemperato l’immagine di quest’opera, offuscando la più sotterranea drammaticità. Presa di coscienza che mi è parsa affiorare con nettezza dalla sorvegliatissima condotta musicale di Angius nel modo con cui, trovando piena adesione dagli esecutori della “Toscanini”, il direttore ha impresso un senso di strenua continuità a quel filo musicale che innerva lo svolgersi dell’azione in maniera carsica, fatta di insinuazioni, provocazioni, sottintesi e tuttavia percorso da una sua “violenza”, come ha sottolineato Boulez nel rivendicare la forza intrinseca di una scrittura che Angius è andato esploran
do con accorta intensità attraverso la coerenza con cui ha regolato l’intrecciarsi nell’inquieto tessuto della vocalità. Tracciato quello dell’orchestra inteso come un sismogramma delle tensioni che si stabiliscono tra i personaggi e al tempo stesso rivelatore della loro reticenza così da sostituirne i silenzi; nonché complemento di quella flessibilità con cui Debussy plasma i recitativi, come gli stacchi del declamato, lo stesso profilo melodico dalla tessitura ristretta. Un rapporto con la vocalità che non è solo condiscendenza per l’andamento prosodico “gregorianeggiante” ma insinuante illuminazione nella imprevedibile mobilità del gioco armonico così da ricreare una teatralità meno esposta nella sfuggente alternanza tra azione e riflessione, termini fondativi del teatro d’opera, la prima affidata al recitativo l’altra all’aria, ingredienti che nella visione di Debussy si fondono misteriosamente. Una cornice entro la quale i personaggi hanno preso vita con compresa coerenza, la trepida, trasognata Mélisande di Monica Bacelli, lo stranito Pelléas di Phillip Addis, il ruvido Golaud di Michael Bachtadze nell’incarnare i momenti più ossessivi - l’allucinante scena con Yniold (brava Silvia Frigato) - ed esplosivi della gelosia, la saggezza temperante di Arkel resa con accattivante misura da Vincent Le Texier. Geneviéve era Enkelejda Shkoza, le presenze del medico e del pastore affidate a Andrea Pellegrini. Se la proposta musicale esplorava le virtualità di una drammaturgia sottesa alla continuità di un flusso impalpabile, tra la stupefazione dei silenzi e inattese irruzioni, la realizzazione registica di Barbe & Doucet tendeva a rendere sensibili le inclinazioni simboliste del dramma di Maetelinck evocando un mondo sotterraneo che libera umori surreali, radici che si prolungano confondendosi coi lunghi capelli di Mélisande, scorciatoia per risolvere uno dei momenti più rischiosi e un po’ imbarazzanti per la messa in scena di Pelléas, acque limpide che si trasformano nel clima malsano della grotta in torbida, inquietante presenza, alla Poe, autore prediletto dal musicista.