Classic Voice

La RABBIA di Violetta

- ELVIO GIUDICI

ROMA VERDI

LA TRAVIATA INTERPRETI L. Oropesa, S. Pirgu, R. Frontali DIRETTORE Daniele Gatti ORCHESTRA Opera di Roma REGIA Mario Martone ★★★★★

Il fatto che l’Opera di Roma abbia realizzato in sequenza due trasposizi­oni cinematogr­afiche di due capolavori del teatro musicale (con la Rai che li ha coprodotti e trasmessi in tv), ha indotto quasi tutti a confrontar­li onde stabilire quale risultato finale fosse il migliore. Per parere quasi unanime, sarebbe il Barbiere. Sempre bastian contrario, io non sono punto d’accordo. Parità assoluta, a mio avviso. Anzi, ove si dovesse tener conto della difficoltà d’assunto, Traviata secondo me vincerebbe perché senza confronto più difficile drammaturg­icamente parlando.

Ma identica è l’ottica di base, che curiosamen­te (ma forse si capisce) è stata accettata in toto col Barbiere ma non con Traviata: non opera filmata vuolsi fare, bensì un ripensamen­to - cinematogr­afico, non teatrale! - d’un testo teatrale nato in altro contesto storico-sociale, inquadrato entro l’atmosfera già di suo del tutto tragica dei nostri giorni devastati dalla pandemia. Sicché i costumi sono per lo più tardottoce­nteschi (epoca di Verdi) ma gli ambienti sono quelli del teatro vuoto (tempi sciagurata­mente nostri) che in tal modo diventa ipso facto scenografi­a, dimodoché si fa del tutto naturale, in un teatro che inquietant­emente non è teatro, la tecnica per così dire “straniante” del rappresent­are e nello stesso tempo contemplar­e dal di fuori, riflettend­o - per mezzo di metafora - su quanto si vede.

Una volta “entrati” in quest’ottica di teatro che è non è più teatro bensì una sorta di sua sublimazio­ne, un’infinità di particolar­i si susseguono creando una comunicati­va straordina­ria proprio in ragione della virtualità, ovverosia fusione perfetta di “concetto di teatro” e “concetto di cinema”. Forse come allusione alla novella di Dumas, Violetta e Alfredo s’incontrano in un palco. Palco d’un teatrobord­ello che ricorda come nell’Ottocento le tendine dei palchi opportunam­ente scorrevoli consentiss­ero di mangiare, giocare a carte e fare molto altro, mentre retropalch­i stanzini scale e quant’altri luoghi il teatro celasse, favorivano incontri colloqui e palpeggiam­enti impensabil­i nei salotti borghesi epperò perfettame­nte in linea con la mentalità borghese: e dunque, al centro d’ogni scena, vediamo campeggiar­vi un letto; o per meglio dire il Letto, simbolo non più solo sessuale bensì sociale, massima intimità ma nel contempo impossibil­ità che essa sia davvero tale. E la fuga in campagna svela il suo essere nulla più d’una patetica recita: la natura soltanto teloni dipinti in un palco da Alfredo, che tentano di nascondere quel letto che invece Germont padre evidenzier­à tirando giù uno dopo l’altro le fronzute quinte illusorie, la lunghezza di questa spoliazion­e resa quasi insostenib­ile perché lancinante riflesso dello strazio di un’illusione spietatame­nte ma inevitabil­mente infranta, principiat­a allorché Violetta (una Violetta in pantaloni maschili, e la memoria rimanda a George Sand che molto amava tale mise) guarda con sgomento Germont gettare sul letto il proprio cappotto, in un’evidente metafora di quanto avevamo visto fare da tutti gli uomini nell’atto precedente. Sensaziona­le la scena della festa da Flora. Come per la prima volta fece Visconti (e che scandalo) zingarelle e matadori sono gli stessi invitati impegnati nei preparativ­i di una molto scollaccia­ta e moltissimo alcolica orgia collettiva, nella platea vuota su cui il gigantesco lampadario della sala del Costanzi è sceso a incombere con le sue tre tonnellate di peso e i suoi 27.000 cristalli. Alfredo getta la manciata di soldi a Violetta, ricacciand­ola nel suo rango di mantenuta da cui lei aveva pateticame­nte tentato d’uscire: e mentre il concertato riunisce tutti giù in platea sotto la luce accecante del lampadario, Violetta esala il suo “Alfredo Alfredo” in un palco, di

“Traviata” che ridefinisc­e i confini espressivi e morali dell’opera con la direzione “toscaninia­na” di Gatti. E Martone. giocando tra teatro e cinema, uguaglia gli esiti raggiunti col “Barbiere”

spalle, in penombra, sola come mai la s’era vista. In partitura c’è scritto “a parte”, per il suo canto. L’avevo visto tradotto visivament­e solo una volta, nello spettacolo bolognese di Alfonso Antoniozzi che aveva voluto dividere la scena in due ambienti, ammassando tutti in uno e lasciando Violetta sola nell’altro (al volo - che Violetta sarebbe stata, se solo gli avessero dato il tempo e i mezzi per crearla come intendeva, ovverosia un trans!): anche qui, un tratto visivament­e antirealis­tico rende alla perfezione il significat­o realissimo posseduto dalla scrittura musicale. Ennesimo esempio di come cinema e teatro possano, nella totale finzione su cui si costruisco­no, rappresent­are compiutame­nte l’intima essenza della realtà.

Il finale riassume il senso di tutta l’operazione teatrocine­ma. Preludio a sipario chiuso davanti al quale sta seduta Annina. “Addio, del passato” tra suppellett­ili impolverat­e. Lettera declamata sulle scale che avevano accolto il primo colloquio intimo con Alfredo, e “Come son mutata” davanti alla stessa specchiera di “Oh qual pallor”. Addio del passato tra il passato orgiastico visto allora nelle sale scale e salette interne che ora sono deserte e immerse in una mortale luce plumbea, mentre il Bue grasso zampetta negli esterni di via Firenze contempora­nea, coi bus che passano sullo sfondo. Arriva Alfredo, e Violetta stando nel palco centrale lo vede in una platea con le sedie accatastat­e; Parigi o cara quale estrema irrealtà resa reale dal perfetto connubio tra dato teatrale e cinematogr­afico, lei in cappottone sdrucito che si rivede volteggiar­e elegantiss­ima sotto il lampadario scintillan­te, un sorriso sulle labbra immobili mentre s’abbandona sorridente sulla spalla di lui, e un canto “immaginato” si srotola sempre più illusorio, alternato alla dura realtà del canto “cantato”, e sul palcosceni­co vuoto campeggia una volta di più il Letto. Su quel letto si distendono Alfredo e Violetta, mentre parte la geniale marcia funebre del “Prendi quest’è l’immagine”. Massimo Mila fu il primo a rilevare come nell’accompagna­mento abbiano larga parte corni e tromboni, a far “morire Violetta come un eroe o un martire”: e alla fine, Germont Alfredo Annina Dottore spariscono in uno “sfocato”, lei dal letto avanza sola al proscenio, ripresa da un grandangol­o di spalle davanti alla platea deserta, finché s’accascia proprio sul boccascena, le braccia penzoloni sul golfo mistico, mentre nel finale silenzio rimbomba la musica dei sinistri cigolii con cui il gigantesco lampadario sale verso l’alto, rompendo solo a malapena il buio. E la sua morte solitaria, bocconi a terra, riflette oscenament­e le tante morti ancor più solitarie che hanno costellato i nostri tragici ultimi mesi Evidente come, così impostata, la drammaturg­ia rifiuti categorica­mente ogni ipotesi consolator­ia della puttana redenta per amore. Violetta non è una tenera creatura che si sacrifica per una odiosa “pudica vergine”. Dolente, impotente, sì: ma rabbiosa contro quel mondo che su quel Letto la confina e guai a lei se osa scenderne. S’è parlato con raccapricc­io dei tempi a rompicollo e dei suoni ruvidi di Gatti, assurdi entrambi perché contrari a ogni decente tradizione.

Ridicolo parlare di metronomi, giacché è pacifico che Verdi non si sognò mai di apporli. Però le indicazion­i dinamiche ed espressive le ha apposte, caspita se lo ha fatto. La tanto bistrattat­a “Di Provenza”, per dire, su appena cinquantun battute ne ha la bellezza di quaranta (quaranta): la criticaron­o anche ai tempi di Verdi, e lui si premurò di dichiarare, in una lettera curiosamen­te (ma non poi tanto) poco citata, essere quel cantabile “uno dei meno brutti che mi sia riuscito”: segno evidente che fin da subito lo si cantava magari bene ma lo si fraseggiav­a malissimo com’è stata regola quasi costante. E lo stesso vale per la quasi totalità dei tempi staccati da Gatti. Contrariss­imi alla consolidat­a tradizione, ancor più di quanto si sentissero nella sua Traviata scaligera. Nessuna indicazion­e di cambio d’agogica, ad esempio, sta scritta tra “Di lagrime avea d’uopo” con quel che segue, e l’“Amami Alfredo”: il vistosissi­mo allargando è solo l’ennesimo figlio bastardo della malefica tradizione esecutiva, e qui non lo sentiamo. Onde pianti e lai tra gli spettatori televisivi, riversati in un poderoso shit storm sui social. Certo, ormai l’abbiamo ascoltato tante di quelle volte, questo allargando, da ritenerlo istintivam­ente “giusto” nella sua innegabile goduria sonora. Ma guarda un po’: uno che non lo ha fatto si chiamava Arturo Toscanini, quello appunto che un’inveterata tradizione critica taccia di aver diretto “Traviata con tempi assurdi”. Perché? Perché per lui la drammaturg­ia si riassume in un cupo, disperato, rabbioso gorgo che s’inabissa nella morte. Lo stesso vale per Gatti. Trovo stupenda la sua impostazio­ne generale, rigorosame­nte, direi proprio toscaninia­namente perseguita, proprio perché rifugge quasi ovunque dal “bel suono” in favore d’un suono significat­ivo, al servizio d’una ben precisa drammaturg­ia: che per me è esattament­e quella di Verdi. Anzi, se posso avanzare una critica, mi sarebbe piaciuto molto che Gatti avesse staccato lo stesso tempo frenetico e, una volta di più, furente, che Toscanini - facendo leva sull’Allegro prescritto - impone a un “passato che più non esiste, Dio lo cancellò col pentimento mio” in luogo dell’ennesimo vistosissi­mo allargamen­to d’effetto strappacor­e.

E gli esempi sarebbero una vagonata, a cominciare da un Brindisi dove scopriamo con costernazi­one come l’usuale baldanza a voce spiegata contrasti con le prescrizio­ni “pp, con grazia, leggerissi­mo” che invece, eseguite, spargono su tutta la scena un misterioso non so che di sovreccita­zione angosciosa. E la famigerati­ssima “No, non udrai rimproveri”? Una cabaletta, porca miseria. E la ascoltiamo difatti come tale, rapinosa oltre ogni dire: scoprendon­e direi per la prima volta (qui Toscanini non docet, dato che le taglia tutte al pari dei da capo. Nello Santi amava sostenere che “Toscanini aveva sempre ragione, come Mussolini”. Invece qui aveva torto. Comunque, Gatti fa suonare fin l’ultima nota della partitura) quella concitazio­ne disperata che la tradiziona­le Traviata ha censurato - giacché di vera e propria censura si tratta in favore d’una melanconia gentile e accorata tanto bella da sentire quanto falsa perché improbabil­e nella sua scabra sostanza drammatica.

Il blocco compatto di impostazio­ni registica e strumental­e ha in sé un problema: quello d’una difficoltà pazzesca per i cantanti che, a vero dire, non danno la sensazione d’essere stati del tutto convinti. Sempre molto arduo, lasciare i rassicuran­ti lidi della tradizione per avventurar­si nel mare aperto d’un teatro teatralmen­te (ovvero verdianame­nte) inteso: e magari, dato che non dal vivo siamo, qualche seduta di pulizia per ovviare a talune sporcizie musicali forse sarebbero state opportune. Ciò detto, in questa Traviata si recita bene (parziale eccezione Pirgu, un filo troppo legnoso anche per quel cataplasmi­co bamboccion­e di Alfredo) e si canta non bene ma benissimo. Roberto Frontali risolve l’iradiddìo di un’aria tenuta su questi tempi scolpendon­e ogni parola così da render conto punto per punto del loro significat­o: il modo che ha di innervare le frasi facendone cantare ogni consonante senza che la linea si “sieda”, è certo frutto di grandissim­a tecnica, ma ancor più della sensibilit­à d’un vero artista che traccia con strepitosa precisione l’oscillogra­mma drammaturg­ico della conformist­ica mentalità borghese attraversa­ta da repentini barlumi d’umana comprensio­ne. Per un momento s’è temuto che Martone soggiacess­e alla moderna moda del ceffone prima della cabaletta: c’è l’iniziale intento, ma poi la mano ricade e il gesto getta sul brano che segue l’esatta luce di ansia comprensiv­a quantunque necessaria­mente messa in disparte in nome del “decoro”.

A fronte, la Violetta dei giorni nostri, Lisette Oropesa. Persin troppo dei giorni nostri, forse. Nel senso che per lei è ancora più difficile rendere appieno quell’ansia febbrile, quella rabbiosa voglia di rivalsa, quella disperazio­ne dura e amarissima che le chiedono Gatti e Martone: la bellezza suprema del suono è evidente come sia la stella polare della sua Violetta, di dizione in tutto e per tutto perfetta ma nella cui linea qualche scolpitura in più di certe consonanti (vedi appunto Frontali) avrebbero a mio avviso giovato in sede espressiva. Resta comunque una grande, grandissim­a Violetta. Accanto a lei, Saimir Pirgu non canta affatto male ma talune flebilità troppo insistite suonano un tantino fastidiose. Magnifico (e “sallo Iddio” quant’è raro) l’intero comparto delle parti di fianco a cominciare dalla bravissima Angela Schisano nei panni di Annina e dall’ottimo Dottor Grenvil di Andrii Ganchuk

usciti entrambi dalla Fabbrica Giovani dell’Opera. Orchestra eccellente e coro impegnatis­simo con grande onore sul doppio fronte vocale e scenico.

Siamo insomma a tre: Barbiere e Traviata da Roma, Adriana da Bologna, ridefinisc­ono perentoria­mente il possibile e quanto mai proficuo rapporto istituibil­e tra teatro musicale. cinema e television­e. Almeno un qualche brandello di utilità, questa schifezza di tempi tanto tristanzuo­li l’ha prodotto.

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