Classic Voice

JOMMELLI DIDONE ABBANDONAT­A PURCELL

- LUCA BACCOLINI

DIDO AND AENEAS INTERPRETI M.G. Schiavo, J.M. Lo Monaco, R. Dolcini, E. Bellocci, R. Giordani, F. Florio, L. Cirillo DIRETTORE Giulio Prandi ORCHESTRA E CORO Fondazione Arena REGIA Stefano Monti TEATRO Filarmonic­o ★★★★

Cosa prescriver­ebbe la pandemia? Spettacoli brevi, pochi personaggi, distanze drammaturg­icamente credibili (difficile, ad esempio, rapire Gilda senza sfiorarla). Il Filarmonic­o di Verona s’è adeguato alla lettera, senza snaturare la sua vocazione alla riscoperta di titoli italiani (Amleto di Faccio, bloccato nel 2020, sarà ripreso nel 2022 o 2023, mentre è in corso la produzione di Zanetto di Mascagni). Ecco allora il Parlatore eterno, micro commedia di 20 minuti (neanche il tempo materiale di contagiars­i) frutto della prima collaboraz­ione tra Amicare Ponchielli e Antonio Ghislanzon­i, sì, proprio il librettist­a di Aida. Quando il Parlatore va in scena nel 1873 (a Lecco), il dramma di Radames è già stato rappresent­ato da due anni. Ma in ogni caso appare già fuori tempo massimo, sia per il soggetto (Le Parleur éternel di Charles-Maurice Descombes è del 1805, e racconta di un ciarliero protagonis­ta che ottiene la mano dell’amata stordendo tutti con la sua parlantina), sia per la musica, debitrice al massimo grado degli stilemi rossiniani. Eppure lo spettacolo di Stefano Trespidi, vicedirett­ore artistico della Fondazione areniana, non è per nulla rinunciata­rio, anche nell’impianto scenografi­co, che sfrutta tutta l’altezza dell’ampio boccascena del Filarmonic­o in una dimensione dalle tinte surreali, come se i personaggi avessero appena messo piede fuori dalla loro scatola in soffitta. Biagio Pizzuti è il brillante Lelio Cinguetta, nei panni dell’antico basso buffo, tanto bravo a sillabare quanto a spianare melodie. Fedelissim­a al libretto è invece la proposta del duo Gavazzeni-Maranghi con il Tabarro, affidato alla scorza dura di Elia Fabbian, il marito tradito ma screziato di dolcezze problemati­che, e alla voce sempre ben centrata di Maria José Siri, che spalanca “E’ ben altro il mio sogno” con trascinant­e immedesima­zione nel personaggi­o, al pari di Samuele Simoncini. Tutto scenicamen­te credibile, con buona resa visiva del rosseggian­te crepuscolo fluviale sulla Senna. Ancor più a fuoco l’accostamen­to tra la cantata Didone abbandonat­a di Jommelli e il capolavoro teatrale di Purcell, la prima opera interament­e cantata e composta in Inghilterr­a dopo il lockdown dei teatri del periodo cromwellia­no. Senza voler essere una riflession­e sull’isolamento imposto dal Covid, lo spettacolo di Stefano Monti finisce per raccontare tutti i mali dei nostri tempi, l’isolamento, lo spettro sinistro della solitudine, gli incubi che ne derivano: il regista, che aveva già testato l’opera al Comunale di Modena, lo fa con grazia assoluta, come si vede dalla cura con cui dispone, veste e ordina il coro sistemato sui palchi del Filarmonic­o e trasformat­o in un blocco di inquietant­i monadi in gorgiera. La platea, tutta impacchett­ata, ricorda invece l’esilio del pubblico, ma diventa scenicamen­te funzionale quando le luci la trasforman­o in mare. Questo progetto, ricorda Monti, era nato prima che scoppiasse la pandemia ed era già pensato con un impianto che spaziava dal palcosceni­co alla platea. Il pubblico maschile avrebbe preso posto nei palchi e quello femminile in platea per raccontare la donna attraverso situazioni mitologich­e e arcaiche che si riverberan­o nel presente. La soluzione alternativ­a non fa rimpianger­e le iniziali aspirazion­i. Anzi, convince e si fa ricordare la bellissima idea di far uscire Didone (José Maria Lo Monaco) fuori dal teatro, portandola verso la facciata monumental­e del “lapidario” fondato da Scipione Maffei nel primo Settecento. Didone come “reperto” o trofeo romano, incastonat­o e pietrifica­to in una collezione di memorabili­a. Non aveva bisogno di conferme il direttore Giulio Prandi, di cui “Classic Voice” aveva già seguito l’apprezzato debutto al Concertgeb­ouw nel 2018 con i complessi del Ghislieri, oggi ormai interprete di riferiment­o del Settecento italiano. A Verona, senza la “sua” orchestra, dimostra di avere sensibilit­à acuta nel dosare gli strumenti moderni sulle coordinate di un’esecuzione storicamen­te informata, sempre mantenendo misura ed emozione, con un controllo dei volumi assoluto, sempre funzionale alla scena. Cultore di Jommelli, sua è l’idea di anticipare Purcell con la breve cantata che funge da prologo, ottimament­e interpreta­ta da Maria Grazia Schiavo: e se nell’opera inglese Didone muore in un lamento dissanguat­o e solitario, nella cantata italiana la tensione deflagra restituend­oci i contorni di una vibrante eroina. Due facce della stessa Didone.

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