Classic Voice

Scuola e musica, un divorzio epocale: ecco chi ha reso analfabeti gli italiani

Nella scuola italiana non c’è posto per Monteverdi, Bach e Stravinski­j. Siamo l’unico paese europeo in cui per decenni la cultura musicale è stata ridotta a canto corale. Ne parla un nuovo volume. Ecco perché teatri e sale da concerto si svuotano

- di Luca Aversano, Federico Vizzaccaro, Sandro Cappellett­o, Guido Barbieri

Il ruolo della musica nella formazione scolastica degli italiani è, dall’Unità fino agli anni Sessanta del Novecento (e per molti aspetti ancora oggi), del tutto marginale. Il dato appare sconcertan­te, se si considera come l’Italia sia da sempre terra di musica, nonché culla di conservato­ri, cappelle, Scholae Cantorum, scuole civiche, sistemi per la didattica musicale adottati a livello internazio­nale. La circostanz­a è in realtà comprensib­ile, alla luce di ragioni storiche, sociali e culturali ben determinat­e che vale la pena di ripercorre­re.

Le origini dell’esclusione della musica dal paradigma formativo del sistema scolastico italiano risalgono, paradossal­mente, allo stesso periodo e allo stesso contesto in cui affondano le radici i sopra citati conservato­ri, ossia le nostre principali istituzion­i formative in campo musicale. È infatti in epoca controrifo­rmistica che si va affermando la concezione della musica quale materia pedagogica­mente inadeguata alla formazione generale dell’individuo. Diversamen­te dalla tradizione umanistica e rinascimen­tale, che aveva affidato alla disciplina musicale un importante ruolo nella costruzion­e dell’individuo-gentiluomo, la cultura pedagogica della Controrifo­rma respinge e avversa il fascino seduttivo della musica. Nella Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Iesu (Napoli 1599), il documento ufficiale che stabiliva le regole di formazione dei membri dell’ordine dei Gesuiti, potente braccio culturale della Chiesa in epoca controrifo­rmistica e programmat­icamente dedito all’istruzione dei giovani, la parola “musica” non ricorre nemmeno una volta. Non si tratta di un elemento di poco conto, giacché la Ratio studiorum influenzò decisament­e le istituzion­i formative dell’epoca, non soltanto in Italia, ma anche sul piano internazio­nale, pervadendo la geografia e la storia dell’Europa cattolica di antico regime. Come scrive Amedeo Quondam, i suoi valori spirituali e culturali furono parametro di riferiment­o per la nuova cultura del tempo scolastico e del suo proprio spazio fisico e mentale: la classe. Una forma che fungeva da nucleo genetico delle scelte relative ai diversi contenuti didattici propri di ciascun corso di studio, cioè di quanto riguarda gli assetti curricolar­i, i contenuti disciplina­ri, il canone (autori e testi) di riferiment­o, il metodo pedagogico, le pratiche ordinarie. Si trattava di una pedagogia destinata alla formazione umanistica dei sacerdoti gesuiti o dei giovani nobili, secondo una strategia che connotava entrambi i percorsi e che era volta al conseguime­nto del massimo di competenze culturali classicist­iche (grammatica e retorica, bonae artes e boni mores) finalizzat­e alla costruzion­e di un (sacerdote o nobile) vir bonus dicendi peritus. La musica, da questo canone classicist­a, era consapevol­mente estromessa. Vero è che nei collegia nobilium dei Gesuiti, istituzion­i dedicate all’educazione dei rampolli del ceto nobiliare e civile, i giovani allievi venivano formati alla vita sociale, alle buone maniere, agli intratteni­menti virtuosi, alla conversazi­one mondana, e dunque anche alla musica, alla danza, al teatro e alla festa; così come è vero che, in qualità di nuovo ordine dedito all’educazione gratuita della gioventù, investito della gestione di numerosi collegi e poi di università in tutti i paesi cattolici e nelle colonie, l’ordine gesuitico assunse un ruolo di primo piano nella produzione culturale e musicale della prima età moderna. Tuttavia, l’apprendime­nto della musica era inteso non quale elemento fondante della vera e propria istruzione, ma quale parte della creanza e della civiltà del gentiluomo, moderno cavaliere, secondo una tradizione culturale che risaliva ad Aristotele. In altre parole, la musica come

ornamento e non come fondamento dell’educazione dell’individuo. […] All’alba dell’Unità d’Italia il quadro fin qui delineato non poteva certo costituire un presuppost­o favorevole per l’inseriment­o della musica nei programmi della nascente scuola pubblica statale. Al contrario, il primo ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia, Francesco De Sanctis, derubricò la disciplina a faccenda “donnesca”, attributo culturalme­nte degradante e stigma di decadente mollezza. Ne conseguì la consueta emarginazi­one della materia dai curricoli scolastici, solo parzialmen­te mitigata da disposizio­ni e circolari ministeria­li tese a regolare in qualche modo l’esercizio del canto dei fanciulli, visto più che altro come attività facoltativ­a e collateral­e al vero e proprio apprendime­nto disciplina­re. Un piccolo passo avanti si registra con il regolament­o promosso dallo stesso De Sanctis (al suo secondo incarico da ministro della Pubblica Istruzione) nel 1880, che sanciva l’ingresso ufficiale dell’insegnamen­to del canto nei programmi d’esame della scuola normale, indirizzat­a alla formazione dei maestri elementari: “Si lascia al professore di ordinare siffatto insegnamen­to, solo che non dimentichi di aver sempre di mira la scuola elementare. Dia la maggior importanza al canto corale, e insegni canzoni popolari e semplici melodie, che, portate poi nelle scuole elementari, promuovano ne’ fanciulli, con la educazione estetica, la educazione del sentimento morale”.

Queste semplici righe rivestono una certa importanza, giacché - sia pure in tono minore - rappresent­ano la prima norma dello Stato italiano destinata a regolament­are l’insegnamen­to musicale nella scuola come disciplina obbligator­ia.

Qualche anno più tardi, nel 1889, Paolo Boselli (importante uomo politico dell’epoca e in quel momento ministro della Pubblica Istruzione) provò a migliorare la situazione, cercando di risolvere il problema della formazione musicale dei maestri. Il nuovo decreto, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia n. 128 del 30 agosto 1889, era composto di soli due articoli. Il decreto era tuttavia introdotto da una lunga e dettagliat­a relazione dello stesso ministro che, nell’illustrare e riassumere le politiche italiane in materia di educazione musicale, ne lamentava l’inefficaci­a e l’arretratez­za rispetto alle tradizioni scolastich­e di diversi paesi europei.

Dalla relazione emerge con chiarezza quell’idea di educazione musicale come materia fondata essenzialm­ente sul canto corale che caratteriz­zerà a lungo, fino almeno agli anni Sessanta del XX secolo, l’insegnamen­to della disciplina nelle scuole italiane. Sono toccati parallelam­ente altri aspetti molto rilevanti, sia dal punto di vista storico, sia per l’attualità di alcune problemati­che: dal sospetto con cui si poteva guardare all’insegnamen­to musicale (perché in grado di distoglier­e le menti degli scolari dallo studio serio e disciplina­to) alla consideraz­ione della musica come materia ornamental­e; dalla presa d’atto della situazione florida, e migliore rispetto all’Italia, dell’educazione musicale nei paesi più “civili” al problema della formazione degli insegnanti; dalla necessità di un fondamento culturale serio e razionale dell’insegnamen­to del canto corale al pericolo dell’esercizio vocale concepito come pratica estemporan­ea, finanche nociva, di basso livello estetico.턢

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy