Scuola e musica, un divorzio epocale: ecco chi ha reso analfabeti gli italiani
Nella scuola italiana non c’è posto per Monteverdi, Bach e Stravinskij. Siamo l’unico paese europeo in cui per decenni la cultura musicale è stata ridotta a canto corale. Ne parla un nuovo volume. Ecco perché teatri e sale da concerto si svuotano
Il ruolo della musica nella formazione scolastica degli italiani è, dall’Unità fino agli anni Sessanta del Novecento (e per molti aspetti ancora oggi), del tutto marginale. Il dato appare sconcertante, se si considera come l’Italia sia da sempre terra di musica, nonché culla di conservatori, cappelle, Scholae Cantorum, scuole civiche, sistemi per la didattica musicale adottati a livello internazionale. La circostanza è in realtà comprensibile, alla luce di ragioni storiche, sociali e culturali ben determinate che vale la pena di ripercorrere.
Le origini dell’esclusione della musica dal paradigma formativo del sistema scolastico italiano risalgono, paradossalmente, allo stesso periodo e allo stesso contesto in cui affondano le radici i sopra citati conservatori, ossia le nostre principali istituzioni formative in campo musicale. È infatti in epoca controriformistica che si va affermando la concezione della musica quale materia pedagogicamente inadeguata alla formazione generale dell’individuo. Diversamente dalla tradizione umanistica e rinascimentale, che aveva affidato alla disciplina musicale un importante ruolo nella costruzione dell’individuo-gentiluomo, la cultura pedagogica della Controriforma respinge e avversa il fascino seduttivo della musica. Nella Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Iesu (Napoli 1599), il documento ufficiale che stabiliva le regole di formazione dei membri dell’ordine dei Gesuiti, potente braccio culturale della Chiesa in epoca controriformistica e programmaticamente dedito all’istruzione dei giovani, la parola “musica” non ricorre nemmeno una volta. Non si tratta di un elemento di poco conto, giacché la Ratio studiorum influenzò decisamente le istituzioni formative dell’epoca, non soltanto in Italia, ma anche sul piano internazionale, pervadendo la geografia e la storia dell’Europa cattolica di antico regime. Come scrive Amedeo Quondam, i suoi valori spirituali e culturali furono parametro di riferimento per la nuova cultura del tempo scolastico e del suo proprio spazio fisico e mentale: la classe. Una forma che fungeva da nucleo genetico delle scelte relative ai diversi contenuti didattici propri di ciascun corso di studio, cioè di quanto riguarda gli assetti curricolari, i contenuti disciplinari, il canone (autori e testi) di riferimento, il metodo pedagogico, le pratiche ordinarie. Si trattava di una pedagogia destinata alla formazione umanistica dei sacerdoti gesuiti o dei giovani nobili, secondo una strategia che connotava entrambi i percorsi e che era volta al conseguimento del massimo di competenze culturali classicistiche (grammatica e retorica, bonae artes e boni mores) finalizzate alla costruzione di un (sacerdote o nobile) vir bonus dicendi peritus. La musica, da questo canone classicista, era consapevolmente estromessa. Vero è che nei collegia nobilium dei Gesuiti, istituzioni dedicate all’educazione dei rampolli del ceto nobiliare e civile, i giovani allievi venivano formati alla vita sociale, alle buone maniere, agli intrattenimenti virtuosi, alla conversazione mondana, e dunque anche alla musica, alla danza, al teatro e alla festa; così come è vero che, in qualità di nuovo ordine dedito all’educazione gratuita della gioventù, investito della gestione di numerosi collegi e poi di università in tutti i paesi cattolici e nelle colonie, l’ordine gesuitico assunse un ruolo di primo piano nella produzione culturale e musicale della prima età moderna. Tuttavia, l’apprendimento della musica era inteso non quale elemento fondante della vera e propria istruzione, ma quale parte della creanza e della civiltà del gentiluomo, moderno cavaliere, secondo una tradizione culturale che risaliva ad Aristotele. In altre parole, la musica come
ornamento e non come fondamento dell’educazione dell’individuo. […] All’alba dell’Unità d’Italia il quadro fin qui delineato non poteva certo costituire un presupposto favorevole per l’inserimento della musica nei programmi della nascente scuola pubblica statale. Al contrario, il primo ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia, Francesco De Sanctis, derubricò la disciplina a faccenda “donnesca”, attributo culturalmente degradante e stigma di decadente mollezza. Ne conseguì la consueta emarginazione della materia dai curricoli scolastici, solo parzialmente mitigata da disposizioni e circolari ministeriali tese a regolare in qualche modo l’esercizio del canto dei fanciulli, visto più che altro come attività facoltativa e collaterale al vero e proprio apprendimento disciplinare. Un piccolo passo avanti si registra con il regolamento promosso dallo stesso De Sanctis (al suo secondo incarico da ministro della Pubblica Istruzione) nel 1880, che sanciva l’ingresso ufficiale dell’insegnamento del canto nei programmi d’esame della scuola normale, indirizzata alla formazione dei maestri elementari: “Si lascia al professore di ordinare siffatto insegnamento, solo che non dimentichi di aver sempre di mira la scuola elementare. Dia la maggior importanza al canto corale, e insegni canzoni popolari e semplici melodie, che, portate poi nelle scuole elementari, promuovano ne’ fanciulli, con la educazione estetica, la educazione del sentimento morale”.
Queste semplici righe rivestono una certa importanza, giacché - sia pure in tono minore - rappresentano la prima norma dello Stato italiano destinata a regolamentare l’insegnamento musicale nella scuola come disciplina obbligatoria.
Qualche anno più tardi, nel 1889, Paolo Boselli (importante uomo politico dell’epoca e in quel momento ministro della Pubblica Istruzione) provò a migliorare la situazione, cercando di risolvere il problema della formazione musicale dei maestri. Il nuovo decreto, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia n. 128 del 30 agosto 1889, era composto di soli due articoli. Il decreto era tuttavia introdotto da una lunga e dettagliata relazione dello stesso ministro che, nell’illustrare e riassumere le politiche italiane in materia di educazione musicale, ne lamentava l’inefficacia e l’arretratezza rispetto alle tradizioni scolastiche di diversi paesi europei.
Dalla relazione emerge con chiarezza quell’idea di educazione musicale come materia fondata essenzialmente sul canto corale che caratterizzerà a lungo, fino almeno agli anni Sessanta del XX secolo, l’insegnamento della disciplina nelle scuole italiane. Sono toccati parallelamente altri aspetti molto rilevanti, sia dal punto di vista storico, sia per l’attualità di alcune problematiche: dal sospetto con cui si poteva guardare all’insegnamento musicale (perché in grado di distogliere le menti degli scolari dallo studio serio e disciplinato) alla considerazione della musica come materia ornamentale; dalla presa d’atto della situazione florida, e migliore rispetto all’Italia, dell’educazione musicale nei paesi più “civili” al problema della formazione degli insegnanti; dalla necessità di un fondamento culturale serio e razionale dell’insegnamento del canto corale al pericolo dell’esercizio vocale concepito come pratica estemporanea, finanche nociva, di basso livello estetico.턢