Randall Goosby, l’allievo di Perlman che riscatta i compositori afroamericani
La musica classica afroamericana è un territorio ancora sconosciuto. Il violinista Randall Goosby ha inciso composizioni inedite, sulle quali spicca Florence Price, la prima compositrice sinfonica nera. “Sono le radici di tutti, non solo le mie”
Il violinista Randall Goosby ha 24 anni, è allievo di Itzhak Perlman, ma nonostante l’età giovanissima sembra già avere un obiettivo chiaro: condurre il pubblico di domani verso il repertorio, ancora in gran parte sconosciuto, dei compositori afroamericani. Questo è infatti il fulcro dell’album di debutto del musicista americano del Tennessee, intitolato “Roots”, in uscita il 25 giugno per Decca Classics. Un album in cui è tracciato il percorso di un secolo di musica afroamericana per violino, dallo spiritual alla musica contemporanea: ci sono William Grant Still, Florence Price, George Gershwin, Antonin Dvorak, Samuel Coleridge-Taylor, Coleridge-Taylor Perkinson, per poi giungere alle composizioni commissionate dallo stesso Goosby al contrabbassista Xavier Foley.
Da dove nasce l’idea del titolo “Roots”. Per caso ha letto l’omonimo libro di Alex Haley?
“No, non ho letto il libro, conosco però la serie televisiva tratta da questo romanzo. Il titolo nasce dall’esigenza di raccontare le mie radici culturali, perché la musica americana è intrinsecamente connessa con quel terreno comune da cui hanno avuto origine gli spiritual, i canti dei nativi americani, dei coltivatori dei campi di cotone. Una cultura dalla quale sono nati il blues e il jazz. Le radici di cui parlo, quindi, sono quelle su cui poggiano oggi le basi della cultura americana che tutti conosciamo. Una cultura che musicalmente è poi sfociata nel pop, nell’hip
hop e nella musica contemporanea in genere. Ecco, ho voluto attingere a tutto questo per raccontare le influenze culturali che si sono sedimentate nella cultura americana e quindi, di riflesso, anche in me. Influenze provenienti da luoghi lontani, da culture diverse, che unite insieme restituiscono un concetto di multiculturalità”.
Che si riflette anche nella sua biografia?
“Il mio personale caso ne è un esempio concreto e lampante. Mia madre, infatti, sebbene sia originaria della Corea del Nord, è cresciuta in Giappone ed in un secondo momento si è trasferita negli Stati Uniti; mio padre invece è di origini afroamericane. Già questo basta per comprendere come il mio stesso sangue sia intriso di differenze. A tutto ciò aggiungerei anche le influenze diverse che hanno caratterizzato la mia crescita musicale, se considero che i miei genitori non provengono dal mondo della musica classica: in casa da piccolo si ascoltavano infatti Luther Vandross e Stevie Wonder”.
In America si assiste a un radicale bipolarismo, tra rigurgiti di razzismo e cancel-culture.
“Il razzismo negli Stati Uniti è talmente radicato che spesso basta un semplice commento sui social network per comprenderne la portata. Io personalmente credo che piuttosto che cancellare tracce del passato occorrerebbe che tutto ciò venisse trasformato in un’opportunità di apprendimento e di apertura al diverso. Facendo così, forse, si potrebbe fornire l’opportunità, a coloro che ancora sbagliano, di rendersi conto del gesto commesso, della parola che non andava detta e di tutto ciò che ne può conseguire. Questo a mio avviso potrebbe essere un modo per lavorare su se stessi, aggiustando certi stereotipi. Potrebbe darsi che così facendo la gente diventi più inclusiva, più empatica e capace di accettare tutte le differenze che, inevitabilmente, esistono tra gli esseri umani”.
Nel suo disco lei riporta alla luce lavori inediti di Florence Price, la prima donna afroamericana ad essere considerata una compositrice sinfonica. Come ne ha scoperto l’esistenza?
“Florence Price è stata la prima donna afroamericana le cui musiche sono state eseguite da una grande orchestra statunitense, nel 1933. Nonostante ciò, dopo la sua morte, la sua figura sembra svanita nell’oscurità. Nel 2009 alcuni manoscritti di suoi spartiti sono stati ritrovati all’interno di una casa abbandonata nell’Illinois, oltre mezzo secolo dopo la sua morte, avvenuta nel 1953. Con l’aiuto di Decca, siamo entrati in contatto con gli archivi musicali dell’Università dell’Arkansas, che possedevano questi manoscritti. È stata un’emozione unica riscoprire due di queste sue composizioni che nel mio disco sono presenti in prima esecuzione mondiale”.
Anche il suo maestro Itzhak Perlman, israelo-americano, possiede come lei delle radici multiculturali.
“Conobbi Perlman a New York, all’età di 14 anni. Il mio insegnate di allora mi incoraggiò a studiare presso il Perlman Music Program in seguito al quale ebbi l’opportunità di vincere una borsa di studio nel programma giovanile della Juilliard, dove ho poi studiato con lo stesso Perlman e Catherine Cho. Per me la musica è sempre stata un modo per ispirare gli altri. Fa parte della mia ricerca personale. La vocazione, poi, ho capito che era quella di ampliare la presenza della cultura afroamericana nel repertorio classico. Credo che le radici multiculturali di Perlman mi abbiano aiutato molto in questo processo. Oltre che mio insegnante è stato mio mentore e amico. Gli devo tanto”.
Cosa ne pensa della politica del presidente Joe Biden?
“Credo stia facendo del suo meglio per condurre il paese a una politica più inclusiva, valorizzando le tradizioni e le culture che convivono negli Stati Uniti. Sono convinto che il suo operato potrà contribuire alla crescita di un’idea di società più tollerante e più equa”.
A soli 24 anni lei ha già preso parte a diversi progetti umanitari che attraverso la musica sostengono i soggetti più fragili.
“Ho partecipato a programmi di coinvolgimento nella comunità negli Stati Uniti, tra cui Opportunity Music Project, che fornisce lezioni, strumenti e tutoraggio gratuiti a bambini provenienti da famiglie a basso reddito a New York, ma anche al Concerts in Motion, progetto che organizza concerti in case private per anziani e per soggetti affetti da coronavirus.”. 턢