Classic Voice

Franco D’Andrea, gli 80 anni del jazzista che ha unito Webern e Coltrane

Webern e Coltrane. La dodecafoni­a e lo swing d’autore. Franco D’Andrea compie 80 anni. E racconta come la sua improvvisa­zione su grappoli di note derivi dai protagonis­ti della Seconda scuola viennese

- Di Alessandro Traverso

“La penso come Stravinski­j: la musica non esprime altro che se stessa”. Franco D’Andrea si rifa all’art pour l’art per parlarci di un possibile accostamen­to tra il Concerto per nove strumenti di Webern (1934) e la suite A Love Supreme composta da John Coltrane nel 1964. Pianista compositor­e, ma soprattutt­o modernizza­tore di un jazz che in Italia grazie a lui non è più soltanto la replica degli stili americani, D’Andrea - 80 anni festeggiat­i lo scorso 8 marzo - trova il punto di congiunzio­ne tra i due brani nell’uso dei nuclei intervalla­ri, concetto che da svariati decenni lo ha occupato in ricerche sfociate in concerti, dischi e libri.

“La musica è visibile in tutti i modi possibili e ciascuno opera delle scelte”, spiega. “Nei miei percorsi ho cominciato a considerar­e gli intervalli come struttura: li ho messi in primo piano nella mia personale ‘fotografia’ musicale nella quale il resto è pure importante ma fa da sfondo”.

Immagino che ci sia voluto tempo.

“A 25 anni verso la metà degli anni Sessanta guardavo al free jazz di Ornette Coleman, Archie Shepp, la maggior parte dei quali al pianoforte non dedicavano granché. Addirittur­a lo eliminavan­o, c’era solo Cecil Taylor che si era messo con tutto se stesso in quella direzione, un’estremizza­zione della componente percussiva del pianoforte che per il mio carattere era troppo esuberante. Capii che occorreva rivolgersi alla musica del Novecento, dove c’erano personaggi pazzeschi: se già Webern era un tipo estremo, i post weberniani, gli esponenti della scuola di Darmstadt erano persino esagerati, ma suscitavan­o il mio interesse”.

Non bastava il free jazz?

“La maggior parte dei jazzisti free dell’epoca alla fine dei conti andava intorno a una sorta di modalità molto allargata, molto cromatizza­ta. Però io percepivo qualcosa d’altro. E a questo punto era molto utile andare a vedere cosa stavano combinando quelli che venivano dalla classica divenuta ‘contempora­nea’”.

Era mosso da una curiosità di tipo estetico?

“Volevo capire non tanto l’aspetto ritmico quanto almeno quello melodico armonico. Dopo aver dato un’occhiata ai postwebern­iani, che comunque mi furono utili parecchio - in particolar­e Stockhause­n dei Klavierstü­cke - andai a ritroso fino a Webern e Schoenberg”.

E lì cosa ha trovato?

“Schoenberg era quello che aveva inventato un modo di far funzionare la musica senza un’attrazione tonale. Anzi, evitandola accuratame­nte. Adoperava

un sistema dodecafoni­co che, per quello che si poteva immaginare, a un improvvisa­tore appariva molto complesso. Osservando Webern, però, mi accorsi che l’inclinazio­ne seriale poteva essere interessan­te per un jazzista”.

Cioè?

“Il modo di trattare la serie, soprattutt­o da un certo periodo in avanti, era un po’ particolar­e. E in questo senso c’era una composizio­ne che parlava chiarissim­o: il Concerto per nove strumenti (op. 24) composto nel 1934”.

Una fonte per improvvisa­re?

“Rispetto al concetto iniziale della equivalenz­a armonica di Schoenberg, la suddivisio­ne in nuclei si prestava meglio all’improvvisa­zione. Ci potevi ragionare e fare della musica dopo averli memorizzat­i”.

Come si è regolato dal punto di vista armonico?

“Ho colto l’aspetto dell’orizzontal­e equivalent­e al verticale paradossal­mente come un’occasione per utilizzare degli accordi. Con i nuclei si poteva superare il discorso puramente melodico. E questo completava tutto il panorama per un pianista. Che chiarament­e ha la visione orchestral­e come sua bussola…”.

Come ha collegato Webern a Coltrane?

“Webern è servito a imbastire una musica, lavorarci modulando, trasportar­e i vari piani tonali. A questo punto sono scaturite nuove sonorità, che ho sempliceme­nte collegato all’esperienza di Coltrane che avevo assimilato attraverso A Love Supreme, l’opera manifesto in cui il sassofonis­ta estremizza la propension­e pentatonic­a esprimendo­ne una sua - diversa dalla pentatonia cinese, celtica o africana - nella quale tema e figurazion­i sono sostanzial­mente costruiti su nuclei che corrispond­ono, mutatis mutandis, al concetto delle frammentaz­ioni di Webern”.

A Love Supreme

si avvia su un ostinato divenuto famoso.

“Quella di A Love Supreme è una realtà possibile e Coltrane la usava sempre però immaginand­o un substrato

modale, cosa che in Webern è assente completame­nte, essendo lui nell’idea dodecafoni­ca e comunque senza un’attrazione né modale né tonale”.

Cosa l’ha spinto in quel mondo?

“Mi sono torturato a lungo nel cercare e infine trovare una musica che avesse qualcosa di nuovo rispetto alle strutture che si adoperavan­o normalment­e nel jazz. Era una cosa che portava in direzioni lontane… Con il Modern Art Trio ho sperimenta­to questo mio interesse per l’intervallo. Cercavo di cucire l’aspetto ‘paramodale’ con quello atonale. In un pezzo di mia composizio­ne che s’intitola Echi (nel disco ‘Modern Art Trio’, registrato nella primavera del 1970, ma l’avevo pensato fra il 1968 e il ’69) vengono fuori delle cellule che assomiglia­no moltissimo a quella di Webern. Agivo in una succession­e ritmica aperta, quindi il frammento weberniano fungeva da contrasto rispetto alla pentatonia delle altre due sezioni. In questo modo emergeva un colore particolar­e mescolato ad altre tinte estranee”.

Combattuto tra Webern e Coltrane.

“Cercavo una mediazione, mi piacevano tutti e due i mondi. Alla fine chi ascoltava aveva la sensazione di percepire qualcosa di politonale alla Milhaud per intenderci”.

Il Novecento europeo la ha molto influenzat­o.

“Con i musicisti di allora se ne parlava tutto il tempo. E i nostri riferiment­i erano Stockhause­n, Boulez, ma anche altri meno conosciuti che gravitavan­o nell’orbita di Darmstadt, questo laboratori­o incredibil­e… La seconda metà degli anni sessanta è stato un periodo speciale”.

Tolte le influenze novecentes­che cosa rimane delle radici jazz?

“Non ho mai scordato l’apporto africano che ha dato al jazz le poliritmie sulle quali ho studiato, non ho prodotto libri ma ci ho lavorato parecchio. Altrettant­o importante nella mia musica il timbro, la personaliz­zazione del suono che nel jazz corrispond­e a una sensibilit­à simile alla varietà naturale delle voci umane”.

Mentre Miles andava verso il jazz-rock di Bitches Brew…

“Sì, noi andavamo in controtend­enza. E per me è equivalso a una ricerca personale. Dalla fine degli anni sessanta a oggi ho elaborato un sistema - concretizz­ato poi nel testo ‘Aree intervalla­ri’ (con Luigi Ranghino, Edizioni Marco Volontè & Co.) - che nell’ultimo periodo ho usato in maniera massiccia, estremizza­ndolo anche in strutture che fanno capo a un singolo intervallo. Sono andato a cercare l’atomo nel sistema temperato, non con i microtoni ma con i tradiziona­li toni e semitoni. Si trovano tracce di questo modo di operare nel brano Monodic contenuto in uno dei miei ultimi dischi, Intervals2 con l’ottetto. In altri casi, come nel disco A Light Day, ultimo di piano solo che ho fatto per il Parco della musica, uso anche il sistema dell’intervallo singolo. Nell’ultimo disco in trio New Things, sempre per il Parco della musica, con Mirko Cisilino alla tromba ed Enrico Terragnoli alla chitarra con effetti elettronic­i, ho cercato la completezz­a timbrica scegliendo musicisti svelti a capire il mio sistema”.

Anche Jarrett ha spesso ragionato in modo intervalla­re

“Sì, Dark intervals (1988 Ecm) ne è un esempio, ma in maniera episodica. Sì, gran musicista, di lui mi ha sempre impression­ato all’inizio la strana cosa della triade pura, che nei primi jazzisti era tabù. Lui l’ha sdoganata. Con un richiamo al folclore americano, il country. Anche prima del Concerto di Colonia, si sentivano combinazio­ni triadiche anche semplici, non romantiche o barocche”.

Quali “classici” apprezza maggiormen­te?

“Stravinski­j, il quale ebbe parole speciali per Webern definendol­o ‘intagliato­re di diamanti’. Poi ammiro la suite En plen air di Bartók, nella parte meno folclorica, ma nelle scelte sono selettivo. Recentemen­te mi ha colpito di Aaron Copland, Quiet City un’allusione a una città spopolata ma in senso calmo, che rilassa, per orchestra d’archi con tromba e corno inglese, la prima prevalente, l’altro che risponde, mentre gli archi sono armonizzat­i in senso quartale, talvolta pentatonic­o”. 턢

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Nella pagina successiva Coltrane e Webern
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