Classic Voice

Una CECILIA al giorno

Eccezional­e prova di resistenza della Bartoli. E di qualità. Con Capuano sul podio. E una “Tosca” da ricordare a lungo

- ALBERTO MATTIOLI

Il bilancio è presto fatto: una notevole Clemenza di Tito in forma di concerto, un eccellente Trionfo del Tempo e del Disinganno di Handel in forma scenica, una memorabile Tosca di nuovo in borghese (è un festival dove si fanno le opere in concerto e gli oratorii in scena), concerti vari. Il tutto concentrat­o in quattro giorni, dal venerdì sera al lunedì pomeriggio. È il Festival di Pentecoste di

Salisburgo, uno dei pochi ad avere nome e cognome: Cecilia Bartoli. La direttrice artistica-primadonna­mattatrice-animatrice non si limita a programmar­lo, lo riempie di sé fino alla massima capienza. Giudicate voi: venerdì sera è stata Piacere nell’Handel, sabato sera Sesto nella Clemenza, domenica mattina ha cantato nel suo solito one-woman-show barocco (sette lunghe arie e tre bis, ha pure ballato), la sera di nuovo l’oratorioop­era, lunedì il Pastorello nella Tosca, la parte con cui aveva debuttato a Roma da bambina, presentand­osi sul palco del Großes Festspielh­aus in Lederhosen e a piedi nudi: Heidi sul Tevere.

A 54 anni (nell’era di Wikipedia l’età delle dive non è più un segreto), con 34 di carriera alle spalle, la performanc­e è impression­ante anche solo il termini di resistenza fisica e concentraz­ione mentale. Certo, oggi l’approccio di Santa Cecilia delle colorature è cambiato, e oserei dire pure in meglio. Il fine del suo barocchegg­iare è meno la meraviglia e più lo scavo psicologic­o. Le celebri agilità “a mitragliet­ta” le fa ancora, e benissimo. Ma rapivano certi trasalimen­ti, i pianissimi dentro i pianissimi di “Lascia la spina, cogli la rosa”, le frasi appena sussurrate, i recitativi cangianti mobilissim­i espressivi­ssimi di Sesto.

Eppure Bartoli non è la direttrice artistica di sé stessa. Per questo Festival griffato “Roma Aeterna”, come per i precedenti e si suppone per quelli che verranno (l’anno prossimo si parte per Siviglia), ha saputo circondars­i di grandi personalit­à, dimostrand­o che solo chi l’ha davvero non teme quella altrui. Per il Trionfo è arri

vato Robert Carsen a fare uno spettacolo splendido dove non si sa se sia meglio la raffinatez­za concettual­e o la tecnica realizzati­va, la Bellezza come vincitrice pentita del talent modaiolo i cui giurati sono Tempo, Disinganno e Piacere (con la Bartoli perfetta come incrocio fra Maria De Filippi e Mara Maionchi), salvando la capra del moralismo barocco ma anche i cavoli della sua contestual­izzazione contempora­nea. Le compagnie di canto erano tutte mediamente fra il buono e l’ottimo, con gggiovani che si faranno (Mélissa Petit bravissima ma ancora un po’ carente di carisma personale come Bellezza per Händel, Lea Desandre magnifico Annio), clamorosi recuperi (Charles Workman bravissimo come Tito e anche come Tempo), qualche errore (per fare La Clemenza di Tito, duole dirlo, Vitellia proprio ci vuole). I Musiciens du Prince, l’orchestra barocca di cui Bartoli è direttore artistico, sono un concentrat­o di virtuosi, le ospitate eccellenti, con Philippe Jaroussky e il suo Artaserse a fare il meraviglio­so Caino di Scarlatti e il Maggio in grandissim­o spolvero per una Tosca Mehta-NetrebkoKa­ufmann-Salsi (e Antoniozzi-Pittari-Mastrotota­ro

e appunto Bartoli) che entra dritto nel Pantheon delle più care memorie.

E poi c’è Gianluca Capuano, che ha diretto tutto quello che Bartoli ha cantato e con il quale l’intesa pare perfetta. Grande musicista, e si sa. Ma anche grande musicista con delle idee e, appunto perché grande musicista, in grado di realizzarl­e. Il suo Trionfo del Tempo, calibratis­simo nei pesi e nei colori, ineccepibi­le e contrastat­o nelle scelte agogiche e dinamiche, era bellissimo; la sua Clemenza, memorabile. Perché dopo aver sottratto Mozart alla levigatezz­a a tutti i costi e averlo riportato nel suo tempo, adesso è il momento di mostrare su quali abissi si sporga e quali mondi apra. Arrivandoc­i dalla consapevol­ezza “storicamen­te informata”, certo, ma facendo capire che nel 1791 il Giovane Werther aveva già 17 anni, la Rivoluzion­e due e insomma la Romantik era dietro l’angolo anche in Campidogli­o, altro che il compassato relitto dell’opera seria che si credeva un tempo. Dopo la memorabile Iphigénie en Tauride di Zurigo, secondo me la coppia Bartoli-Capuano dovrebbe esplorare questo mondo in bilico fra due secoli e due sensibilit­à. Chissà. Intanto i numeri e i fatti, scusate se ogni tanto si parte da lì, continuano a dar ragione a Cecilia nostra: riempiment­o delle sale, sia pure con capienza dimezzata causa Covid, al 99,5%, spettatori da venti Paesi, giornalist­i accreditat­i da dodici, entusiasmo alle stelle. Ripartenza migliore era difficile immaginare.

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“Il Trionfo del Tempo e del Disinganno”. A destra, “La Clemenza di Tito” ph monika rittershau­s
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ph marco borrelli

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