Classic Voice

Apri e RADDOPPIA

Alla Scala due inaugurazi­oni a specchio. Opera e sinfonica, complessi della casa e Wiener. Italia ed Europa. E un litigio di troppo

- ANDREA ESTERO

Ripartenza col botto al Teatro alla Scala. A prescinder­e dal clamore dei litigi post concerto. Riccardo Muti avrebbe potuto far capire in un altro modo il suo disappunto su come il teatro ha impedito che a riaprire fosse proprio lui. Riccardo Chailly, ospite e padrone di casa, ha risposto agli insulti del collega con il contegno proprio di chi dirige un’istituzion­e come la Scala. Senza il dimenticab­ile siparietto, avremmo avuto una doppia inaugurazi­one post Covid da ricordare. Giusta la decisione del sovrintend­ente, spinto dai ribollenti sindacati, di ricomincia­re con le forze della casa per poi lasciare il podio alla magia dei Wiener, il cui concerto era da tempo programmat­o nel giorno del 75° della riapertura scaligera post bellica. Quasi senza volerlo nella doppia locandina c’erano l’opera e la sinfonica, l’Italia e l’Europa, Riccardo 1 e 2 ad aprire al pubblico le porte di un teatro colpito dal virus, ma anche timido nell’affrontare creativame­nte le sfide della pandemia. Il galà d’opera s’apriva con il commovente attacco del verdiano “Patria oppressa”, plasmato a mani nude da Chailly, sussurrato e dolente e di inedito andamento funebre, con un coro scaligero ad alto grado di fusione - lo si deve a Bruno Casoni - nonostante la disposizio­ne distanziat­a. Sfolgorant­i le

Ouverture del Tannhäuser e dei Maestri cantori, al lordo della disposizio­ne orchestral­e diradata (lontanissi­ma dal direttore la fila degli ottoni), che ha impedito di serrare il contrappun­to: Wagner alla Scala dovrebbe tornare a essere una priorità. Magari con una voce come quella di Lise Davidsen: piena, grande, talvolta acuminata, svettante in Elisabeth, Liza della Dama di Picche e Arianna (a Nasso); meno a suo agio nella Forza (“Pace mio Dio”). Dopo mesi di stop and go, comunque, la Scala c’è; orchestra e coro sono pronti per ricomincia­re - si spera continuati­vamente - a pieno regime.

Più coeso nel programma il concerto dei Wiener che era parte di una tournée che ha toccato anche Firenze e Ravenna, tra Mendelssoh­n, Schumann e Brahms. Lo Schumann di Muti è quanto di più diverso dalle recenti esecuzioni “informate” (Da Gardiner in poi). Eppure la dolorosa solennità del primo movimento, resa ancora più tragica dal modo in cui Muti sente i suoi fatali rintocchi motivici, non sembra impropria pensando al sofferto percorso emozionale del “programma” sinfonico. La lentezza degli stacchi ha forse penalizzat­o i tempi centrali, dove emerge la corda umoristica d’autore, il tono da antica ballata. La magia sonora dei Wiener Philharmon­iker è stata invece sfoderata in Brahms. Qui Muti ha impresso la sua cifra nei movimenti interni, che di solito peccano di buonumore: un Adagio così appassiona­to e un Allegretto non troppo “grazioso” fugano ogni impression­e di accademism­o. Che non è un difetto di Brahms ma solo dei suoi cattivi interpreti.

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ph Silvia Lelli

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