Apri e RADDOPPIA
Alla Scala due inaugurazioni a specchio. Opera e sinfonica, complessi della casa e Wiener. Italia ed Europa. E un litigio di troppo
Ripartenza col botto al Teatro alla Scala. A prescindere dal clamore dei litigi post concerto. Riccardo Muti avrebbe potuto far capire in un altro modo il suo disappunto su come il teatro ha impedito che a riaprire fosse proprio lui. Riccardo Chailly, ospite e padrone di casa, ha risposto agli insulti del collega con il contegno proprio di chi dirige un’istituzione come la Scala. Senza il dimenticabile siparietto, avremmo avuto una doppia inaugurazione post Covid da ricordare. Giusta la decisione del sovrintendente, spinto dai ribollenti sindacati, di ricominciare con le forze della casa per poi lasciare il podio alla magia dei Wiener, il cui concerto era da tempo programmato nel giorno del 75° della riapertura scaligera post bellica. Quasi senza volerlo nella doppia locandina c’erano l’opera e la sinfonica, l’Italia e l’Europa, Riccardo 1 e 2 ad aprire al pubblico le porte di un teatro colpito dal virus, ma anche timido nell’affrontare creativamente le sfide della pandemia. Il galà d’opera s’apriva con il commovente attacco del verdiano “Patria oppressa”, plasmato a mani nude da Chailly, sussurrato e dolente e di inedito andamento funebre, con un coro scaligero ad alto grado di fusione - lo si deve a Bruno Casoni - nonostante la disposizione distanziata. Sfolgoranti le
Ouverture del Tannhäuser e dei Maestri cantori, al lordo della disposizione orchestrale diradata (lontanissima dal direttore la fila degli ottoni), che ha impedito di serrare il contrappunto: Wagner alla Scala dovrebbe tornare a essere una priorità. Magari con una voce come quella di Lise Davidsen: piena, grande, talvolta acuminata, svettante in Elisabeth, Liza della Dama di Picche e Arianna (a Nasso); meno a suo agio nella Forza (“Pace mio Dio”). Dopo mesi di stop and go, comunque, la Scala c’è; orchestra e coro sono pronti per ricominciare - si spera continuativamente - a pieno regime.
Più coeso nel programma il concerto dei Wiener che era parte di una tournée che ha toccato anche Firenze e Ravenna, tra Mendelssohn, Schumann e Brahms. Lo Schumann di Muti è quanto di più diverso dalle recenti esecuzioni “informate” (Da Gardiner in poi). Eppure la dolorosa solennità del primo movimento, resa ancora più tragica dal modo in cui Muti sente i suoi fatali rintocchi motivici, non sembra impropria pensando al sofferto percorso emozionale del “programma” sinfonico. La lentezza degli stacchi ha forse penalizzato i tempi centrali, dove emerge la corda umoristica d’autore, il tono da antica ballata. La magia sonora dei Wiener Philharmoniker è stata invece sfoderata in Brahms. Qui Muti ha impresso la sua cifra nei movimenti interni, che di solito peccano di buonumore: un Adagio così appassionato e un Allegretto non troppo “grazioso” fugano ogni impressione di accademismo. Che non è un difetto di Brahms ma solo dei suoi cattivi interpreti.