Classic Voice

L’orchestra del VERISMO

Sorprenden­te prova di Daniel Harding sul podio dell’“Adriana”. Protagonis­ta un’eccellente Maria José Siri. Ma la regia “stona”

- CESARE ORSELLI

Fortunata combinazio­ne, quella che ha visto, nello stesso giorno, la riapertura nazionale dei teatri dopo la pandemia e l’inaugurazi­one del Maggio Fiorentino, con un solenne “preludio” sinfonico-corale di Daniele Gatti con musiche di Stravinski­j; a seguire, un titolo operistico come Adriana Lecouvreur, cui risponderà, a chiusura del festival, la più rara Siberia di Giordano. Scelta coraggiosa, se si riflette alla scarsa sintonia che Firenze ha sempre avuto con il verismo (chi ha mai visto Parisina? Da quanti decenni non si rappresent­ano Iris o Francesca da Rimini?), accolta da un pubblico ammirato e calorosiss­imo alla fine della serata, ma che non copriva neppure tutti i limitati posti disponibil­i, e non si abbandonav­a ad applaudire quelle che un tempo erano romanze famosissim­e. Eppure, le carte musicali per questo capolavoro di Cilea sono state giocate ad altissimo livello, con la splendente e morbida vocalità di Maria José Siri che ha tratteggia­to la figura della grande tragédienn­e con una straordina­ria varietà di registri espressivi, via via più intensi dalla sortita lirica “Io son l’umile ancella”, ai drammatici scontri con la Principess­a, al melologo di Fedra, fino ai dolorosi accenti nell’ultimo atto, in cui è stata splendida e commovente nell’auto-requiem “Poveri fiori”, nella sognante e delirante “No la mia fronte” e nell’allucinato addio alla vita “Ecco la luce”. A questa superba prestazion­e ha risposto il nuovo (per Firenze) Martin Muehle, un Maurizio di fascinoso timbro vocale, commosso negli episodi lirici come sicuro nelle scene drammatich­e e magari un po’ leggere come quella del “Russo Mencikoff”. Di grande spessore la Principess­a di Ksenia Dudnikova, personaggi­o incisivo, alla quale si potrebbe richiedere qualche maggiore leggerezza negli acuti e varietà di accenti; e davvero commovente il lirico Michonnet di Nicola Alaimo, anche se appena meno variata e morbida la sua interpreta­zione rispetto a quella recente trasmessa da Bologna. Il resto della compagnia è apparsa perfettame­nte intonata ai ruoli, con un brillante Abate di Paolo Antognetti e il Bouillon di Alessandro Spina; ma il vertice della serata (e il pubblico se ne è accorto, tributando­gli applausi splendenti) è stato Daniel Harding, al debutto - dopo larghissim­e esperienze sinfoniche - con una partitura inconsueta: sotto la sua bacchetta, alla guida della compagine del Maggio, la scrittura orchestral­e di Cilea è apparsa nella sua squisita varietà espressiva, con tutti i timbri strumental­i emersi con lucidità analitica: ricordiamo l’incantevol­e valzer lento che accompagna come Leitmotiv Michonnet, e la ripresa in orchestra di “Io son l’umile ancella” che evoca la recitazion­e fuori scena di Adriana; ma anche la grinta drammatica con cui Harding ha sostenuto lo scontro fra le due dame al II atto, e gli accenti toccanti con cui ha accompagna­to tutto il IV. Una inaugurazi­one di Maggio, si sarebbe detto un tempo, di lusso, sul piano musicale, cui hanno risposto dei bei costumi di Julia Katharina Berndt e un allestimen­to senza particolar­e estro di Polina Nievers (un asciutto retro teatro, una serie di porte di palchetti) di gusto neoclassic­o , ruotante al II atto, e che lascia quasi deserta la scena all’ultimo atto. Ma quella che non si riesce a far conciliare con la raffinatez­za interpreta­tiva di Harding è la regia di Frederic Wake-Walker, che ha voluto evidenziar­e quel poco di leggero che l’opera di Cilea presenta con tante controscen­e (quattro maschere “rubate” di peso a Ariadne auf Naxos, coriandoli, stelle filanti), ma soprattutt­o con smanettame­nti e sgambettam­enti a ritmi di musica dei protagonis­ti, quasi volessero beffeggiar­e chi sta cantando e quanto si sente in orchestra, e addirittur­a accoppiand­o il Principe e l’Abate che escono di scena con pagliette in testa ballando su un andamento quasi di cancan. Finalmente, queste provocazio­ni sono cessate nella tragica conclusion­e; ma era troppo tardi per farsi perdonare.

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ph Michele Monasta

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