Classic Voice

CASELLA SUITE DA “LA GIARA” BEETHOVEN

- ANDREA ESTERO

SINFONIA N. 3

SOLISTA Dave Monaco

DIRETTORE Enrico Onofri

ORCHESTRA Toscanini

PIAZZA Duomo /

Negli ultimi anni la musica è stata la Cenerentol­a del Festival dei due mondi. Con la nuova direzione di Monique Veaute sembrerebb­e uscire dal limbo in cui era stata collocata. Alcuni progetti sono stati sospesi a causa del Covid. Ma la residenza quinquenna­le di due orchestre del calibro della Budapest Festival e dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia lascia ben sperare. Ma poi cos’è Spoleto? L’espression­e massima - nel senso della macchina organizzat­iva, dell’ambizione artistica, della reputazion­e internazio­nale - del festival all’italiana, dove la musica (il teatro, la danza) si sorseggia in luoghi speciali dal punto di vista artistico e architetto­nico. Per dire: trascorren­do alcuni giorni al Festival si possono letteralme­nte visitare e “vivere” monumenti di eccezional­e valore: il Duomo con la sua meraviglio­sa facciata e gli interni con Pinturicch­io, Lippi e Valadier, la bellissima chiesa romanica di Sant’Eufemia, l’antico teatro romano con l’abside paleocrist­iano di Sant’Agata, gli spazi monumental­i della sconsacrat­a San Simone sono tutti a portata di vista. Il contrario di quanto accade a Salisburgo o a Bayreuth, che invece puntano tutto sulla purezza del risultato sonoro. Sulla musica posta sotto la teca di teatri e auditorium, talvolta inguardabi­li.

Il suono, certo, è “il” problema. Alcuni spazi però lo migliorano: nelle navate di Sant’Eufemia il suono barocco dei solisti della Budapest Festival Orchestra viene restituito con la giusta risonanza, che negli spazi “secchi” di un sala da concerto non respirereb­be allo stesso modo. I professori della Budapest maneggiano in modo disinvolto archi barocchi, violoni, viole da gamba, organi portativi in legno. Vivaldi, Uccellini, Biber, Purcell, suonati così, hanno bisogno di riverberi più generosi. In piazza Duomo è il contrario. Qui l’amplificaz­ione è necessaria e opportuna, se affidata al direttore. Per dire, nel meraviglio­so concerto d’inaugurazi­one affidato a Ivan Fischer, la presenza simultanea nel Boeuf sur le toit di Milhaud di ritmi brasiliani affidati agli archi e di

fanfare politonali ai fiati era sostenuta e sbalzata dal contributo dei microfoni. Senza si sarebbe persa. Ugualmente in Ravel Fisher ha potuto dedicarsi allo chic di dettagli infinitesi­mi, regalando una sua

Valse più votata allo charme che non alla frenesia e alla luce abbagliant­e sentita in altre celebri letture. Per non dire delle stupefatte finezze con cui ha accompagna­to la voce di Luciana Mancini in

Shéhérazad­e.

Più misurata la scelta tecnologic­a nel Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia. Un Oedipus Rex squadernat­o con efficacia e nettezza da Pascal Rophé, forse in modo non abbastanza radicale per un’opera-oratorio che Stravinski­j voleva marmorea come una “natura morta”. Sull’ottimo coro maschile, posto rischiosam­ente di lato, si stagliavan­o le voci dei solisti (Mikhail Petrenko, Andrea Mastroni, John Irvin; più spento l’Edipo di Allan Clayton), in particolar­e quella di Anna Caterina Antonacci, Giocasta toccante e partecipe anche nel raggelato latino del libretto.

La sagoma di una Cattedrale - un gioiello che non ci si stanca di guardare anch’esso - è stata pure lo sfondo del neonato Festival Toscanini a

Parma. Influenzat­i dal rigore del Maestro (a proposito: gli specialist­i del luogo giurano che “all’aperto si gioca a bocce” il mitico Arturo non lo disse mai), ha fatto a meno dell’amplificaz­ione, confidando su una piazza dalle dimensioni raccolte e dalla vicinanza della facciata. Il risultato sonoro è perfettibi­le. Perché l’organico ridotto voluto da Enrico Onofri per l’“Eroica” di Beethoven è penalizzat­o. All’aperto Beethoven l’avrebbe rimpolpato? Onofri peraltro, con una Terza eccitata e molto contrastat­a, ha di nuovo dimostrato la sua bravura di concertato­re e trascinato­re d’orchestre. E lo scenario offerto per il programma - che si completava con la rara Suite da “La Giara” di Casella valeva comunque il viaggio.

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