Mecenati
La pandemia ha reso ancor più centrale il ruolo dei mecenati nel mondo della musica. Ma l’Italia è ancora solamente al 54° posto tra i paesi più generosi, come raccontano le autrici della prima guida per far collaborare filantropi e musicisti
L’Italia arranca nella classifica dei più generosi. E Marino Golinelli, 101 anni, è il decano dei filantropi musicali
Che la musica abbia sempre trovato riparo sotto l’ombrello dei mecenati lo racconta già a inizio Cinquecento Isabella d’Este, che alla sua corte accolse come fossero di casa Bartolomeo Tromboncino e Marchetto Cara. Una patrona delle arti ante litteram. L’avrebbero imitata Cristina di Svezia, la fondatrice del primo teatro pubblico di Roma e protettrice di tanti compositori, compreso Stradella; la leggendaria, anche se più discreta, vedova Nadezda von Meck, una bussola per Cjakovskij, o Winnaretta Singer, che seguì musicisti come Chabrier, Fauré, Stravinskij, Satie, de Falla e Poulenc. L’elenco potrebbe proseguire. Ed è un bene che non si esaurisca, soprattutto in tempi incerti come questi, nei quali nemmeno il posto fisso (si vedano gli orchestrali del Metropolitan lasciati per un anno senza stipendio) è garanzia di stabilità. Connettere benefattore e beneficiato non è però sempre agevole. Per spianare la strada sono nate figure professionali come quella di Elisa Bortoluzzi Dubach e Chiara Tinonin, autrici del primo manuale di collaborazione con filantropi e mecenati (“La relazione generosa - Guida alla collaborazione con filantropi e mecenati”, FrancoAngeli), un libro che esplora il mondo della generosità, scritto in forma di guida, utile a entrare nella mente dei mecenati per capirne non solo il punto di vista economico, ma soprattutto psicologico. Che ci fosse bisogno di un aggiornamento della materia lo dimostra il fatto che, soprattutto nella musica, sono nati modelli d’intervento nuovi, orientato non solo al sostegno dei musicisti e delle orchestre, ma anche a
temi come l’educazione del pubblico, l’accesso alla musica colta per le fasce deboli della popolazione e, più in generale, all’utilità sociale della musica classica come leva di educazione e arricchimento culturale. E un periodo di chiusura come il 2020-21, pur penalizzando i musicisti ha dato ulteriore evidenza al peso del mecenatismo. “Negli ultimi vent’anni - spiega Elisa Bortoluzzi Dubach, docente universitario in Italia e in Svizzera nonché consulente per fondazioni e aziende internazionali - il settore della filantropia ha conosciuto un trend di sviluppo costante, sia in termini di volumi d’investimento, sia di strategie e affinamento di competenze. Spesso si guarda al mondo anglosassone come un punto di riferimento virtuoso, ma i riferimenti culturali e di scenario non sono uguali per tutti i Paesi: se guardiamo all’Italia, per esempio, nei diversi territori agiscono organizzazioni molto radicate, come le fondazioni di origine bancaria, un modello che in altri Paesi non esiste. L’attuale momento di difficoltà spinge alla creazione di iniziative ad hoc, interventi di tipo emergenziale come la creazione di fondi di solidarietà, il pre-acquisto di biglietti per stagioni
future, lo sviluppo di piattaforme online di sostegno ai progetti”. Ecco perché, soprattutto ora, è essenziale accorciare le distanze tra i due mondi. Per Bortolozzi e Tinonin, le due autrici, si deve compiere una rivoluzione copernicana nell’intendere i ruoli di benefattore e beneficiato: “Siamo convinte - spiegano - che in una relazione filantropica l’artista sia solo in parte ‘richiedente’, e sia piuttosto ‘offerente’ di un’occasione straordinaria di conoscenza, passione e realizzazione per il mecenate. Ciò che consente a un artista di entrare facilmente in relazione con un mecenate è, dunque, la consapevolezza. Consapevolezza del proprio progetto artistico, dei valori e dei messaggi che veicola; e consapevolezza che l’atto generoso di un mecenate non è mai casuale, anzi, è fortemente legato alle sue emozioni e al suo vissuto personale. Il mecenatismo in fondo si colloca nell’area della soggettività”. Ma quanto pesa l’aiuto dei privati al Terzo Settore in Italia? Impossibile stabilirlo con precisione: “Fino ad oggi - conferma Stefania Boffano dell’Università Bocconi - gli enti no profit non hanno l’obbligo di presentare i bilanci presso registri pubblici”. Alcuni studi, però, ci aiutano a dare una dimensione del fenomeno. Uno dei tasselli centrali dell’Italy Giving Report della rivista “Vita”, arrivato quest’anno alla sua sesta edizione, sono i dati forniti dal ministero dell’Economia e delle Finanze relativamente alle erogazioni liberali portate in deduzione e detrazione dai cittadini italiani in dichiarazione dei redditi. “Nelle dichiarazioni del 2019 (anno fiscale 2018) - analizza Bortoluzzi Dubach - le donazioni tornano a crescere dopo una battuta d’arresto degli anni precedenti, portando a una stima complessiva di 5,528 miliardi di euro. Per fotografare il presente, il report descrive anche i dati del ‘Non Profit Philantropy Social Good Covid-19 Report’ di ‘Italia Non Profit’ che dà conto di 975 iniziative attivate per far fronte al Coronavirus, per un valore complessivo di 785,55 milioni di euro, mentre le statistiche sui donatori individuali (dati tracking Covid Doxa condotto nella primavera 2020) raccontano di 13/15 milioni di italiani che tra marzo e aprile hanno fatto una donazione con causale ‘emergenza’”. All’atto pratico, la pandemia ha fatto crescere la consapevolezza percepita del mecenatismo all’interno della società civile. La strada era già stata imboccata con l’introduzione dell’Art Bonus, il sistema di defiscalizzazione che prevede un credito d’imposta del 65% per le erogazioni liberali a favore dei beni culturali pubblici e dello spettacolo, successivamente esteso ai beni religiosi dei comuni terremotati e a numerosi enti dello spettacolo dal vivo. “La normativa italiana sulle donazioni è in ritardo rispetto ad altri paesi come la Svizzera - spiegano le autrici -. Dalla sua istituzione a oggi, l’Art Bonus ha registrato donazioni da parte di 22.240 mecenati (privati e imprese), per un volume di donazioni complessivo pari a oltre 555 milioni di euro”. Tra i maggiori interventi finanziati figurano quelli a favore dell’Arena di Verona, del Teatro alla Scala, del Teatro Regio di Parma, del Museo Egizio di Torino, del Teatro Donizetti di Bergamo, delle Mura urbane di Lucca e, recentemente, il restauro curato dal Comune di Perugia alla Fonte di San Francesco. “Ma se guardiamo ai donatori - precisa Bortoluzzi Dubach - più della metà dei mecenati sono istituti di credito e fondazioni. Uno degli aspetti più rilevanti è quindi sollecitare maggiormente i privati cittadini che hanno l’opportunità di
contribuire a preservare il patrimonio artistico godendo di una parziale ma significativa detassazione”. La strada da percorrere è ancora lunga. “Il World Giving Index, la fonte più autorevole nelle indagini comparatistiche sul mecenatismo, dice che l’Italia è ancora al 54° posto fra i paesi più generosi al mondo”. Con numerose e benemerite eccezioni, che spesso rispondono presente nel momento del bisogno. Negli ultimi due mesi è accaduto a Milano con l’ingresso in Consiglio di Giorgio Armani, diventato socio fondatore della Scala con il versamento di 600.000 euro l’anno per due anni (“un dovere morale”), mentre a Verona si sono mossi 67 imprenditori guidati da Sandro Veronesi (Calzedonia) e Gian Luca Rana (dell’omonimo pastificio), capofila di una cordata che in poche settimane ha raccolto 1.5 milioni a favore della Fondazione Arena. Sono cifre enormi, ma gli aiuti vanno sempre in proporzione: “Ciò che conta - concludono Bortoluzzi e Tinonin - sono le competenze di progettazione e la capacità di creare un impatto positivo e durevole. La forte identità e il radicamento col territorio vincono sempre”. 턢
in un piccolo laboratorio di tre stanze in centro a Bologna (la Biochimici AL.F.A - Alimenti fattori accessori). Da lì la produzione del vaccino antitubercolare, il farmaco contro la trombosi e, nei primi anni Settanta, il Normix, antibiotico contro le infezioni intestinali. Nel tempo Alfa farmaceutici ha cambiato nomi e acquisito marchi, dalla Schiapparelli a Wassermann fino a Sigma Tau. Oggi il gruppo Alfasigma è tra i primi cinque dell’industria farmaceutica in Italia, con un fatturato che nel 2019 ha superato il miliardo di euro. Golinelli avrebbe potuto fermarsi, godendosi una fortuna sterminata. Ma nel 1988 la fame divorante di futuro lo ha spinto a creare una Fondazione che nel 2015 ha inaugurato una cittadella della conoscenza di 14.000 metri quadri alla prima periferia di Bologna, un gigantesco incubatore in cui vengono forniti strumenti di studio e ricerca ai giovani, al centro del quale troneggia il Centro Arti e Scienze, un parallelepipedo luminoso di 700 metri quadrati firmato dall’architetto Mario Cucinella, dove hanno avuto luogo mostre e concerti. “Mai separare la ricerca scientifica da quella estetica”, ripete sempre Golinelli, “perché spesso l’arte individua o intuisce prima i bisogni dell’uomo”. In questa visione, che lui definisce “olistica”, la musica assume un ruolo centrale. Non a caso i principali interventi di sostegno al Teatro Comunale di Bologna negli ultimi decenni hanno portato la sua firma, assieme a quella della moglie Paola Pavirani. Le 440 poltrone della platea sostituite in blocco, l’ascensore, la camera acustica finanziata da Alfasigma, persino i bagni pubblici esterni al teatro sono solo alcune delle iniziative che si sommano al patrocinio di opere, festival e rassegne concertistiche.
Marino Golinelli, perché lo fa?
“Perché attraverso la musica impariamo a conoscere la storia dei bisogni dell’uomo. Io sono convinto che il suono, come forza primordiale, dai tamburi fino alle orchestre più sofisticate, sia uno dei segni fondamentali del passaggio dell’uomo sulla terra. Indagare il suono significa andare alla ricerca dei nostri perché più profondi”.
Come si accorda la musica alla scienza, che ha rappresentato molto della sua vita di imprenditore?
“Matematica, genetica, chimica, ma anche arti visive: tutto è intimamente connesso. Non esistono compartimenti stagni nell’attività umana. Il cervello è il motore di tutto. Se studiamo il cervello dal punto di vista biochimico e linguistico perché dovremmo ignorare la musica? Sento la responsabilità di dare un contributo concreto a questa ricerca. Sono certo che condurrà a esiti imprevedibili nel corso dei prossimi secoli”.
Lei pensa sempre al futuro.
“Per Fondazione Golinelli penso già a quello che succederà nel 2088, quando se ne celebrerà il centenario (1988-2088) insieme al millenario dell’Università di Bologna. Bisogna sempre avere un atteggiamento positivo per gli anni a venire. Per il mio 100°, nel 2020, io e mia moglie abbiamo sostenuto la nuova produzione di ‘Tristano e Isotta’ al Teatro
Comunale di Bologna. Mi piaceva l’idea di contribuire a un’opera che indaga il mistero estremo dell’amore, della vita e della morte, proprio come fanno gli scienziati”.
Scienza e musica sono due lati della stessa medaglia?
“Bisognerebbe cominciare a vedere le attività umane con una visione olistica. Ho conosciuto e frequentato premi Nobel che suonavano il pianoforte. Io non lo suono, ma credo nel potere speculativo della musica. Fin quando ho lavorato ho avuto poco tempo, ma poi ho frequentato e amato il Metropolitan, la Scala, la Fenice e ovviamente il teatro della città in cui vivo. Ho vissuto abbastanza da vedere molte evoluzioni nella musica cosiddetta classica, dal jazz alle avanguardie del Novecento. Amo la musica, la ritengo un bisogno intimo. E credo nel contemporaneo, perché tutta la musica lo è stata”.
Quando ha cominciato a sentirsi mecenate?
“Mecenate è una parola che non mi descrive appieno, perché legata a una logica di sussidiarietà. Preferisco definirmi filantropo, in senso etimologico amico dell’uomo, dei suoi bisogni, delle sue aspirazioni. Sostengo e promuovo scienza, arti e ricerche con risorse mie, un’esigenza personale e quasi una conseguenza naturale di tutto ciò che ho ottenuto nel mio percorso imprenditoriale: un modo per restituire alla società parte di ciò che ho ricevuto. Sono nato povero e ho avuto l’occasione di realizzare molte cose. Mi considero fortunato e vorrei contribuire a creare anche per altri occasioni di felicità”.
Con sostegni diretti alle produzioni ma anche alle infrastrutture.
“L’ultima iniziativa che ho sostenuto al Teatro Comunale di Bologna è la messa in opera di un ascensore, che dia la possibilità, a chi ha difficoltà di camminare, di poter usufruire del teatro. Ma non sarà solo un mezzo tecnico. Ho voluto che l’ascensore fosse una vera e propria scultura in cui prenderanno posto disegni, opere, testimonianze della vita musicale e artistica”.