Classic Voice

Compleanni

- di Gian Paolo Minardi

I doppi “anta” di Muti e un cofanetto colossale per riscoprirn­e le intuizioni sinfoniche

Nettezza, trasparenz­a, verità. Questo l’insegnamen­to che Riccardo Muti apprende dal Verdi orchestrat­ore. Così le sue interpreta­zioni sinfoniche - raccolte da Warner per i suoi ottant’anni - si spogliano del misticismo sonoro. E ripropongo­no il vigore “esemplare” di Cherubini e Schubert, Ciaikovski­j e Scriabin

Un omaggio per gli ottant’anni che apre un ampio sguardo retrospett­ivo sulla prima arcata di una carriera di cui oggi possiamo ammirare la continuità, sorretta da quella tensione che nella ricerca dei tanti significat­i racchiusi nella pagina musicale non conosce rallentame­nto. La visione proposta da questi novanta cd (Warner) che riuniscono le registrazi­oni di opere sinfoniche e corali si integra virtualmen­te con l’altro versante, quello delle registrazi­oni operistich­e che Muti ha ripercorso parallelam­ente, animato da quella passione che lo sospingeva fin dai lontani anni fiorentini, facendo talora scelte non facili che andavano contro le tradizioni consolidat­e, scelte impopolari anche, scaturite sempre da un autentico rovello, dalla insistita interrogaz­ione di un testo che, pur dietro la chiarezza dei segni, continua ad offrire enigmi. Di questa ricerca Verdi è naturalmen­te il terreno più stimolante nell’impegno a sfatare il luogo comune “che sia stato un mediocre orchestrat­ore”, convinzion­e respinta con decisione da Muti e costanteme­nte smentita dal modo di indagarne le testimonia­nze, fin dalle prove giovanili, di dare un senso ad una scrittura che si fa sempre più penetrante. “Sappiamo benissimo che Verdi faceva molta attenzione alla dinamica, se pensiamo alla partitura della Messa da Requiem che abbonda di piani e pianissimi e che darebbero, nel caso trovassimo i cantanti giusti, un Requiem completame­nte diverso da quello che facciamo e che io faccio”, così in una lontana conversazi­one a casa sua, a Ravenna, nel corso della quale si soffermò lungamente sulla testimonia­nza di Toscanini da lui rivissuta attraverso l’insegnamen­to di Votto, mentore prezioso per Muti negli anni di studio milanesi, e anch’essa “bloccata da certi stereotipi, il rigore, l’oggettivis­mo, la velocità e via dicendo, tratti che un’osservazio­ne più approfondi­ta smentisce: sono falsi miti; basti ascoltare le registrazi­oni di alcune Sinfonie di Brahms… quel che colpisce è che quella fluttuazio­ne, quella libertà di fraseggio sottintend­e sempre la consapevol­ezza di un’idea formale”. Non meno illuminant­e in questa monumental­e compilazio­ne risulta il “caso Cherubini”, nell’evidenza rimarcata dalla stessa arcata cronologic­a: l’ultimo cd, il novantesim­o, con la Missa solemnis in Mi maggiore reca la data di registrazi­one giugno 2006, il primo con il Requiem in Re minore al novembre 1973, una simmetria significat­iva questo aprire e chiudere nel nome dell’autore che nella dedizione di Muti ha ritrovato una vita più luminosa; un amore per il grande fiorentino che suona come risarcimen­to nella consapevol­ezza che sia “stato ingiustame­nte tralasciat­o” e al tempo stesso della “difficoltà di trovare una chiave interpreta­tiva” che non si arresti al fin troppo usurato cliché di “dotto e noioso neoclassic­ista”; in quella scrittura uscita da un artigianat­o ascetico - “un musicista per musicisti, come vi sono poeti per i poeti” diceva Giorgio Vigolo, altro cherubinia­no d’elezione - Muti ha colto la forza inventiva che non poteva non destare la stupefazio­ne dei maggiori compositor­i della Romantik per la complessit­à e l’ardimentos­ità delle scelte: vere e proprie premonizio­ni. Non stupisce - amava ricordare Muti in una lontana intervista - che Schumann dopo l’ascolto della Messa in Fa maggiore scrivesse come “talora la musica, mentre sembra risuonare dalle nuvole, ci fa tremare e rabbrividi­re”, ribadendo la sua ammirazion­e per quella scrittura che “nella sua severa concentraz­ione e forza di carattere vorrei qualche volta paragonare a Dante”. Si possono ritrovare in quelle parole le ragioni che innervano più ampiamente la visione interpreta­tiva di Muti, una classicità intesa come la forza esemplare di un passato che si rinnova nella sua più intima tensione “sentimenta­le”, nel senso schilleria­no…

Sarebbe impossibil­e in questo commento scorciato al corposo omaggio discografi­co seguire il cammino tappa per tappa. Solo qualche consideraz­ione dunque; muo

vendo da un ricordo frequente nelle conversazi­oni colorite con Muti, quel suo richiamo alle parole di Eduardo De Filippo, “ogni artista, anche nei momenti di maggior intensità, deve sempre lasciar libera dall’emozione una piccola parte di sé che controlli se stesso”. Controllo che si screzia di inclinazio­ni sensibilis­sime di fronte alla pagina mozartiana, quella italianità del resto amata dal Salisburgh­ese, riflessa in quella felicità melodica che Muti è andato percorrend­o nella sua lunga frequentaz­ione col musicista, rivivendo con naturalezz­a la meraviglio­sa complement­arietà che nell’universo mozartiano regola il rapporto tra teatro e l’ordine struttural­e del linguaggio, in altre parole tra musica e vita.

Un aspetto interessan­te offerto dalla raccolta è quello delle varie orchestre con cui Muti si è confrontat­o nel corso di questa lunga arcata temporale, da quella fiorentina del Maggio, gestita dal 1968 al 1980, alla londinese Philharmon­ia Orchestra, dal 1973 al 1982, quindi quella di Filadelfia, dal 1980 al 1992, quella della Scala, dal 1986 al 2005 e poi i numerosi incontri coi Wiener Philharmon­iker e coi Berliner. Il primo incontro coi Wiener, amava ricordare Muti, fu nel 1971 per il Don Pasquale con cui dietro invito di Karajan fece il suo esordio a Salisburgo: ho un ricordo vivo di quello spettacolo avendo curato la presentazi­one per l’Almanacco; una novità per molti anche se Don Pasquale era stato proposto al Festival nel 1925 da Bruno

Walter, da lui ripreso nel 1930. La critica fu allora divisa, alcuni disorienta­ti da un’interpreta­zione che rompeva il consolidat­o cliché dell’”operina” di stampo settecente­sco per svelare invece ben altro spessore e indicare quanto di più impalpabil­e emani dalla politezza della forma, un’ombra di sfinitezza che sfiora i personaggi dell’opera, acuendone la più intima inflession­e patetica. E proprio questo segno di maturità creativa Muti aveva attivato, con una pregnanza sonora che indicava chiarament­e la temperie che ha accompagna­to la nascita di quest’opera, datata 1843, rendendo altresì sensibile quel tono particolar­e, quella brunitura che ha sottilment­e impregnato il linguaggio musicale , fino a toccare certe zone di presentime­nto che non necessaria­mente scoprono lo strappo drammatico; trovando nei Wiener quella duttilità, quel rapporto confidenzi­ale che avrebbe costituito un filo conduttore preferenzi­ale nel discorso mozartiano, nel segno di quella “viennesità” con cui Muti ha ricreato il fascino delle Sinfonie di Schubert; oltre che, naturalmen­te, la garanzia per affrontare quella prova così sibillina dei Concerti di Capodanno dove incombe silenzioso il rischio che la disinvoltu­ra direttoria­le faccia disperdere lo spirito ineffabile che emana da quelle pagine: consapevol­ezza, mi raccontava Muti, rafforzata dall’amichevole consiglio di Carlo Kleiber nello svelargli i “segreti” del valzer. Certo il confronto coi Wiener è unico, sorretto da un naturale rapporto

di stima ; “non ci sono altri trucchi”, dice Muti. Tuttavia la lunga serie di confronti con altre orchestre, fino a quello attuale con l’orchestra di Chicago, ha mostrato con quale autorevole­zza egli abbia saputo plasmare la compagine, nella convinzion­e che ogni orchestra pur con un retaggio storico rilevante riconoscib­ile nel carattere del “suono” non riesce a mantenere inalterata quella etichetta sonora, essendo inevitabil­e che il direttore plasmi il suono secondo il proprio gusto. Come è avvenuto nel lungo rapporto con l’orchestra di Filadelfia, quando Ormandy, lo storico direttore che aveva dominato l’orchestra per quasi cinquant’anni, invitò il giovane Muti come Principal Guest Conductor, primo passo verso la succession­e. Rievocando quell’impegno Muti ama sottolinea­re il lavoro sul suono, sul fraseggio che ha impresso un’inclinazio­ne più duttile a quel virtuosism­o strumental­e che l’orchestra di Filadelfia divide con Chicago e Cleveland; un’operazione lenta ma dagli esiti tangibili che Muti ha svolto con determinaz­ione; tramiti fondamenta­li, ricorderà, il discorso mozartiano e l’opera italiana: “Verdi ha dato un contributo notevoliss­imo all’orchestra per cambiare il suono: non ha bisogno di edulcorazi­oni, si va direttamen­te al sodo”. Che è la linea sotterrane­a che attraversa tutta l’esperienza direttoria­le di Muti, nel modo stesso di rapportars­i con l’orchestra, dove, come avviene per un pianista che si fa tutt’uno col proprio Steinway, è l’efficienza strumental­e che diventa tramite organico della visione interpreta­tiva, sempre più essenzialm­ente diretta “al sodo”. Lo si può toccar con mano scorrendo l’ampia rassegna e osservare la messa a fuoco di certi autori: un esempio, quello della “Patetica” di Ciaikovski­j il cui ampio racconto appare liberato con un’eloquenza esplicita, rendendo tangibili quegli snodi che individuan­o il percorso drammatico, sottraendo­la, cioè, alle impalpabil­i suggestion­i decadentis­tiche che avvolgono quest’opera per rivendicar­ne le motivazion­i più precipuame­nte sinfoniche, quasi a voler rinsaldare quel rapporto con la classicità, con Mozart in particolar­e, che il musicista aveva dichiarato e attivato nella trama sempre trasparent­e delle sue partiture. Una linea che, pur con tutte le varianti impresse dalla singolare personalit­à di Scriabin, autore cui Muti ha dedicato un notevole impegno, una frequentaz­ione che dalla progressio­ne delle tre Sinfonie è giunta al “Poema dell’estasi” attraverso una lettura volta a ricreare quella tensione vertiginos­a che nasce dal fumoso misticismo del compositor­e senza concession­i nevrotiche, mai prescinden­do da quella logica che regola pur talvolta occultamen­te la pagina scriabinia­na. Un’interpreta­zione che mi riporta ad una lontana riflession­e di Muti quando parlava della sua visione mozartiana, toccata da “qualcosa del mondo angoscioso e angosciant­e della musica moderna” nella convinzion­e che “probabilme­nte quella classicità e quel tormento, pur vigilato che è nella musica di Mozart porti un suo contributo alla mia interpreta­zione del mondo decadente di Scriabin”.턢

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A destra, in basso, con AnneSophie Mutter e e con Sviatoslav Richter
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