Compleanni
I doppi “anta” di Muti e un cofanetto colossale per riscoprirne le intuizioni sinfoniche
Nettezza, trasparenza, verità. Questo l’insegnamento che Riccardo Muti apprende dal Verdi orchestratore. Così le sue interpretazioni sinfoniche - raccolte da Warner per i suoi ottant’anni - si spogliano del misticismo sonoro. E ripropongono il vigore “esemplare” di Cherubini e Schubert, Ciaikovskij e Scriabin
Un omaggio per gli ottant’anni che apre un ampio sguardo retrospettivo sulla prima arcata di una carriera di cui oggi possiamo ammirare la continuità, sorretta da quella tensione che nella ricerca dei tanti significati racchiusi nella pagina musicale non conosce rallentamento. La visione proposta da questi novanta cd (Warner) che riuniscono le registrazioni di opere sinfoniche e corali si integra virtualmente con l’altro versante, quello delle registrazioni operistiche che Muti ha ripercorso parallelamente, animato da quella passione che lo sospingeva fin dai lontani anni fiorentini, facendo talora scelte non facili che andavano contro le tradizioni consolidate, scelte impopolari anche, scaturite sempre da un autentico rovello, dalla insistita interrogazione di un testo che, pur dietro la chiarezza dei segni, continua ad offrire enigmi. Di questa ricerca Verdi è naturalmente il terreno più stimolante nell’impegno a sfatare il luogo comune “che sia stato un mediocre orchestratore”, convinzione respinta con decisione da Muti e costantemente smentita dal modo di indagarne le testimonianze, fin dalle prove giovanili, di dare un senso ad una scrittura che si fa sempre più penetrante. “Sappiamo benissimo che Verdi faceva molta attenzione alla dinamica, se pensiamo alla partitura della Messa da Requiem che abbonda di piani e pianissimi e che darebbero, nel caso trovassimo i cantanti giusti, un Requiem completamente diverso da quello che facciamo e che io faccio”, così in una lontana conversazione a casa sua, a Ravenna, nel corso della quale si soffermò lungamente sulla testimonianza di Toscanini da lui rivissuta attraverso l’insegnamento di Votto, mentore prezioso per Muti negli anni di studio milanesi, e anch’essa “bloccata da certi stereotipi, il rigore, l’oggettivismo, la velocità e via dicendo, tratti che un’osservazione più approfondita smentisce: sono falsi miti; basti ascoltare le registrazioni di alcune Sinfonie di Brahms… quel che colpisce è che quella fluttuazione, quella libertà di fraseggio sottintende sempre la consapevolezza di un’idea formale”. Non meno illuminante in questa monumentale compilazione risulta il “caso Cherubini”, nell’evidenza rimarcata dalla stessa arcata cronologica: l’ultimo cd, il novantesimo, con la Missa solemnis in Mi maggiore reca la data di registrazione giugno 2006, il primo con il Requiem in Re minore al novembre 1973, una simmetria significativa questo aprire e chiudere nel nome dell’autore che nella dedizione di Muti ha ritrovato una vita più luminosa; un amore per il grande fiorentino che suona come risarcimento nella consapevolezza che sia “stato ingiustamente tralasciato” e al tempo stesso della “difficoltà di trovare una chiave interpretativa” che non si arresti al fin troppo usurato cliché di “dotto e noioso neoclassicista”; in quella scrittura uscita da un artigianato ascetico - “un musicista per musicisti, come vi sono poeti per i poeti” diceva Giorgio Vigolo, altro cherubiniano d’elezione - Muti ha colto la forza inventiva che non poteva non destare la stupefazione dei maggiori compositori della Romantik per la complessità e l’ardimentosità delle scelte: vere e proprie premonizioni. Non stupisce - amava ricordare Muti in una lontana intervista - che Schumann dopo l’ascolto della Messa in Fa maggiore scrivesse come “talora la musica, mentre sembra risuonare dalle nuvole, ci fa tremare e rabbrividire”, ribadendo la sua ammirazione per quella scrittura che “nella sua severa concentrazione e forza di carattere vorrei qualche volta paragonare a Dante”. Si possono ritrovare in quelle parole le ragioni che innervano più ampiamente la visione interpretativa di Muti, una classicità intesa come la forza esemplare di un passato che si rinnova nella sua più intima tensione “sentimentale”, nel senso schilleriano…
Sarebbe impossibile in questo commento scorciato al corposo omaggio discografico seguire il cammino tappa per tappa. Solo qualche considerazione dunque; muo
vendo da un ricordo frequente nelle conversazioni colorite con Muti, quel suo richiamo alle parole di Eduardo De Filippo, “ogni artista, anche nei momenti di maggior intensità, deve sempre lasciar libera dall’emozione una piccola parte di sé che controlli se stesso”. Controllo che si screzia di inclinazioni sensibilissime di fronte alla pagina mozartiana, quella italianità del resto amata dal Salisburghese, riflessa in quella felicità melodica che Muti è andato percorrendo nella sua lunga frequentazione col musicista, rivivendo con naturalezza la meravigliosa complementarietà che nell’universo mozartiano regola il rapporto tra teatro e l’ordine strutturale del linguaggio, in altre parole tra musica e vita.
Un aspetto interessante offerto dalla raccolta è quello delle varie orchestre con cui Muti si è confrontato nel corso di questa lunga arcata temporale, da quella fiorentina del Maggio, gestita dal 1968 al 1980, alla londinese Philharmonia Orchestra, dal 1973 al 1982, quindi quella di Filadelfia, dal 1980 al 1992, quella della Scala, dal 1986 al 2005 e poi i numerosi incontri coi Wiener Philharmoniker e coi Berliner. Il primo incontro coi Wiener, amava ricordare Muti, fu nel 1971 per il Don Pasquale con cui dietro invito di Karajan fece il suo esordio a Salisburgo: ho un ricordo vivo di quello spettacolo avendo curato la presentazione per l’Almanacco; una novità per molti anche se Don Pasquale era stato proposto al Festival nel 1925 da Bruno
Walter, da lui ripreso nel 1930. La critica fu allora divisa, alcuni disorientati da un’interpretazione che rompeva il consolidato cliché dell’”operina” di stampo settecentesco per svelare invece ben altro spessore e indicare quanto di più impalpabile emani dalla politezza della forma, un’ombra di sfinitezza che sfiora i personaggi dell’opera, acuendone la più intima inflessione patetica. E proprio questo segno di maturità creativa Muti aveva attivato, con una pregnanza sonora che indicava chiaramente la temperie che ha accompagnato la nascita di quest’opera, datata 1843, rendendo altresì sensibile quel tono particolare, quella brunitura che ha sottilmente impregnato il linguaggio musicale , fino a toccare certe zone di presentimento che non necessariamente scoprono lo strappo drammatico; trovando nei Wiener quella duttilità, quel rapporto confidenziale che avrebbe costituito un filo conduttore preferenziale nel discorso mozartiano, nel segno di quella “viennesità” con cui Muti ha ricreato il fascino delle Sinfonie di Schubert; oltre che, naturalmente, la garanzia per affrontare quella prova così sibillina dei Concerti di Capodanno dove incombe silenzioso il rischio che la disinvoltura direttoriale faccia disperdere lo spirito ineffabile che emana da quelle pagine: consapevolezza, mi raccontava Muti, rafforzata dall’amichevole consiglio di Carlo Kleiber nello svelargli i “segreti” del valzer. Certo il confronto coi Wiener è unico, sorretto da un naturale rapporto
di stima ; “non ci sono altri trucchi”, dice Muti. Tuttavia la lunga serie di confronti con altre orchestre, fino a quello attuale con l’orchestra di Chicago, ha mostrato con quale autorevolezza egli abbia saputo plasmare la compagine, nella convinzione che ogni orchestra pur con un retaggio storico rilevante riconoscibile nel carattere del “suono” non riesce a mantenere inalterata quella etichetta sonora, essendo inevitabile che il direttore plasmi il suono secondo il proprio gusto. Come è avvenuto nel lungo rapporto con l’orchestra di Filadelfia, quando Ormandy, lo storico direttore che aveva dominato l’orchestra per quasi cinquant’anni, invitò il giovane Muti come Principal Guest Conductor, primo passo verso la successione. Rievocando quell’impegno Muti ama sottolineare il lavoro sul suono, sul fraseggio che ha impresso un’inclinazione più duttile a quel virtuosismo strumentale che l’orchestra di Filadelfia divide con Chicago e Cleveland; un’operazione lenta ma dagli esiti tangibili che Muti ha svolto con determinazione; tramiti fondamentali, ricorderà, il discorso mozartiano e l’opera italiana: “Verdi ha dato un contributo notevolissimo all’orchestra per cambiare il suono: non ha bisogno di edulcorazioni, si va direttamente al sodo”. Che è la linea sotterranea che attraversa tutta l’esperienza direttoriale di Muti, nel modo stesso di rapportarsi con l’orchestra, dove, come avviene per un pianista che si fa tutt’uno col proprio Steinway, è l’efficienza strumentale che diventa tramite organico della visione interpretativa, sempre più essenzialmente diretta “al sodo”. Lo si può toccar con mano scorrendo l’ampia rassegna e osservare la messa a fuoco di certi autori: un esempio, quello della “Patetica” di Ciaikovskij il cui ampio racconto appare liberato con un’eloquenza esplicita, rendendo tangibili quegli snodi che individuano il percorso drammatico, sottraendola, cioè, alle impalpabili suggestioni decadentistiche che avvolgono quest’opera per rivendicarne le motivazioni più precipuamente sinfoniche, quasi a voler rinsaldare quel rapporto con la classicità, con Mozart in particolare, che il musicista aveva dichiarato e attivato nella trama sempre trasparente delle sue partiture. Una linea che, pur con tutte le varianti impresse dalla singolare personalità di Scriabin, autore cui Muti ha dedicato un notevole impegno, una frequentazione che dalla progressione delle tre Sinfonie è giunta al “Poema dell’estasi” attraverso una lettura volta a ricreare quella tensione vertiginosa che nasce dal fumoso misticismo del compositore senza concessioni nevrotiche, mai prescindendo da quella logica che regola pur talvolta occultamente la pagina scriabiniana. Un’interpretazione che mi riporta ad una lontana riflessione di Muti quando parlava della sua visione mozartiana, toccata da “qualcosa del mondo angoscioso e angosciante della musica moderna” nella convinzione che “probabilmente quella classicità e quel tormento, pur vigilato che è nella musica di Mozart porti un suo contributo alla mia interpretazione del mondo decadente di Scriabin”.턢