A fuoco IL SIPARIO
Il festival sul Lago di Costanza riporta in scena l’incompiuta a cui Boito lavorò per una vita intera senza mai vederla rappresentata
BOITO
NERONE
INTERPRETI R. Rojas, L. Gallo, B. Polegato, S. Aksenova, A. Volpe
DIRETTORE Dirk Kaftan
ORCHESTRA Wiener Symphoniker
CORO Prager Philharmonischer
REGIA Olivier Tambosi
SALA Festspielhaus ★★★★
Dopo Amleto, Nerone. Preziosa la proposta del Festival di Bregenz che prosegue l’interessante indagine di quel sodalizio, Arrigo Boito-Franco Faccio, che rappresenta un capitolo molto importante, per quanto in ombra, della nostra storia operistica. Il palcoscenico sul lago, famoso per le sue realizzazioni spettacolari e macchinistiche di titoli evergreen, si affianca dunque a quello “chiuso” del contiguo Festspielhaus, luogo per speciali recuperi d’autore. Quest’anno l’attenzione è tutta per Boito compositore e librettista di se stesso, autore incontentabile di un’opera concepita negli anni sessanta dell’Ottocento e lasciata incompiuta alla sua morte. Sei anni dopo, nel 1924, Toscanini - che la teneva in alta considerazione - la volle rappresentare alla Scala affidandone il completamento a Vincenzo Tommasini e Antonio Smareglia. L’ascolto smentisce il credo secondo cui gli artisti debbano necessariamente “evolversi”. A cinquant’anni dalla prima del Mefistofele, Boito lascia un’opera che gli somiglia molto. E che testimonia la presenza di un’“alternativa”, nella cultura musicale italiana ottocentesca, al modello operistico corrente. Wagner, in questo Nerone che è più dramma di idee e che descrive mondi più che ritrarre caratteri, pesa più di Verdi. L’invenzione boitiana attua quel Dualismo che l’autore dichiarò in una poesia giovanile: da una parte il cromatismo dei romani corrotti, dall’altra il diatonismo “nazareno” dei primi cristiani. Partitura di notevole peso orchestrale benissimo restituita dai Wiener Symphoniker diretti da Dirk Kaftan. Del cast (Lucio Gallo, Brett Polegato, Svetlana Aksenova, Alessandra Volpe) il meno a fuoco era proprio Nerone (Rafael Rojas). La regia di Oliver Tambosi attenua i dualismi, dimentica le ricchissime didascalie boitiane sulla Roma antica e traduce il Basso impero in un horror dove le vittime della violenza sono martoriate a colpi di martello e machete. Teatralmente non sbaglia. Ma convince solo quando per descrivere l’incendio di Roma (una sorta di “incantesimo del fuoco”) lavora con luci e ombre su un sipario chiuso, davvero fiammeggiante.