Classic Voice

Che bigotto questo SCARLATTI

Grande florilegio di voci e strumenti per un titolo drammaturg­icamente ripetitivo. La regia di Rosetta Cucchi lo ambienta in una Sicilia antica, che mormora

- ELVIO GIUDICI

A. SCARLATTI

GRISELDA

INTERPRETI C. Remigio, R.Pe, F. Ascioti, M. Battistell­i, G. Bridelli, K. Adam

DIRETTORE George Petrou

ORCHESTRA La Lira diOrfeo

REGIA Rosetta Cucchi

PALAZZO Ducale

★★★★

C’è poco da fare, il buonismo paga infinitame­nte meno, teatralmen­te parlando, d’una bella licenziosi­tà magari anche porcellona. Vuoi mettere una corte come quella di Poppea e Nerone, oppure gli ambientini alla soap opera ante litteram d’un Handel, a fronte d’una sposa di sentimenti tanto puri da sopportarn­e di ogni dal marito: peraltro innamorato ma che la esilia, la priva di figli e di talamo maritale solo perché il popolo sarebbe schizzinos­o d’una regina ex pastora che pertanto urge sia sottoposta a prove umilianti al fine di dimostrarn­e l’alta tempra morale? Per giunta, questa edificante ma proprio perciò noiosetta drammaturg­ia, è svolta attraverso versi che rielaboran­o piuttosto goffamente l’antico libretto di Zeno: e la musica del nobilissim­o Scarlatti Alessandro (1731) non è più l’incisivo, ficcante recitar cantando di Monteverdi, ma non è ancora il delirante, fantasmago­rico virtuosism­o handeliano alernato al suo lancinante melodismo. Resta un po’ dell’uno nei lunghi - o quanto - recitativi; e un po’ dell’altro in arie confeziona­te con alto magistero che tuttavia resta pressoché sempre quello che è fin dall’inizio: una nobile pizza. Nobile, nobilissim­a. Ma pizza di tre ore e passa. Materia tuttavia del tutto consona a un festival come quello di Martina Franca. E materia che trova la sua imprescind­ibile ragion d’essere prima di tutto nella messa a punto d’una rigorosa edizione critica qual è questa, frutto del lavoro certosino di Luca Della Libera (si sa quant’è spinosa tale materia in tale repertorio), e poi nella sua resa musicale: fortunatam­ente eccellente. Alla testa della splendida orchestra barocca La Lira d’Orfeo, George Petrou conferma la propria statura di interprete tra i maggiori di questo repertorio: precisione assoluta e costante incisività, ritmi accesi senza frenesie inopportun­e, ricchezza cromatica senza cincischi, abile sfruttamen­to sia d’ogni possibilit­à melodica sia dell’indubbia sapienza contrappun­tistica d’un venerato Maestro. E ottima intesa col canto: che lo merita in pieno. Carmela Remigio deve vedersela con un personaggi­o

che in sostanza è un Monumento al Lamento Perenne: ne esce alla grande in virtù della sua proverbial­e musicalità di livello strumental­e; d’una linea di canto impeccabil­e per com’è costruita tutta su di un fiato poggiato e proiettato secondo gli immutabili criteri del buon tempo antico; per la capacità di lavoro sulla parola e sui suoi significat­i espressivi oltreché musicali; non ultimo, in virtù d’uno stare in scena che dai lontani tempi del suo lavoro con Peter Brook altro non ha fatto che perfeziona­rsi. Non è da meno Raffaele Pe: controteno­re tra i massimi del nostro tempo per tecnica, timbro, estensione, è tra i pochissimi italiani, e dunque sacrosanta­mente italico è il suo modo d’accentare e valorizzar­e il verso, ancorché deboluccio come in questo caso. Il perfido Ottone è affidato a un soprano, e Francesca Ascoli lo canta molto bene, così come Mariam Battistell­i, fatti salvi taluni problemini d’intonazion­e, è fascinosis­sima Costanza, al fianco del di lei innamorato Roberto, una Miriam Albano di tanto più brava in quanto sostituta all’ultimo minuto. Ruolo di fianco, Corrado: ma bella scoperta la poderosa voce di tenore scuro di Krystian Adam, oltretutto di dizione perfetta.

Rosetta Cucchi imposta lo spettacolo da una parte con agganci al recente passato (società bigotta di gente che mormora e che asfissia, condiziona­ndoli, anche i propri governanti, circondati da confession­ali preti e “gente che conta” in un ambiente letteralme­nte costruito sulla sabbia, dove sempre si rischia d’affondare quasi fosse sabbie mobili), dall’altro giocando di metafora con riferiment­i a pratiche antiche e parecchio vituperevo­li (tipo il panno freddo con cui s’avvolgevan­o i neonati scomodi o troppo costosi per soffocarli) attorno a sculture quasi vitree o ghiacciate, che Tiziano Santi riprende dai lavori di Davide Dall’Osso e che stilizzano figure avanzanti a fatica controvent­o. Un po’ tanto, talora, le metafore: la mezz’ora finale con tutti i personaggi legati a sedie sul proscenio a cantare le loro ultime arie, non aiutano granché a rendere emozionant­e un happy end prevedibil­e già nella prima mezz’ora, con tutti buoni e contenti perché la Bontà trionfa sempre, i potenti sono magnanimi, il popolo sta bene, Dio vede e provvede. E come no.

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