ROSSINI al varietà
Leo Muscato ambienta l’opera in un teatro ma non intercetta la componente sovversiva del personaggio. Chailly dirige un cast omogeneo alla ricerca di una perduta cantabilità
IL BARBIERE DI SIVIGLIA INTERPRETI M. Mironov, M.F. Romano, S. Stoyanova, M. Olivieri, N. Ulivieri
DIRETTORE Riccardo Chailly
REGIA Leo Muscato
SCENE Federica Parolini
TEATRO alla Scala
★★★★
Il primo nuovo allestimento che la Scala ha proposto al pubblico in sala era quello, molto applaudito, del Barbiere di Siviglia, musicalmente pregevole, poco significativo per ciò che riguarda la concezione scenico-registica: solo su quest’ultima le opinioni si sono divise. La regia di Leo Muscato proponeva tutta la vicenda all’interno di un vecchio teatro (alludendo vagamente a un’epoca tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, all’epoca cioè in cui c’erano ancora gli impresari), partendo dalla constatazione che tutti i personaggi hanno qualcosa a che fare con la musica: nelle scene di Federica Parolini non c’è traccia di Siviglia o della Spagna; ma vediamo un grande boccascena, in cui si evocano in modo scorrevole camerini, sale prove, un ufficio e altro. Bartolo potrebbe essere l’impresario, Rosina prima donna, Almaviva direttore d’orchestra e forse autore della
Inutil precauzione, Figaro (che appare per la prima volta in scena uscendo dalla buca del suggeritore) factotum del teatro. Pur realizzata con garbo, l’idea cade nel vecchio gioco del teatro nel teatro e riesce molto riduttiva, in particolare per quanto riguarda la figura di Figaro e il suo significato storico-sociale. Non è colpa di Mattia Olivieri, che ha debuttato con ammirevole sicurezza nella parte di Figaro, se fin dal suo apparire in scena ci sembra soltanto un simpatico giovanotto, un ragazzotto servizievole e gentile (anche se canta benissimo tutta la sua parte). Per esempio l’autorevolezza della sua grande entrata nel Finale I (“Che cosa accade, signori miei…”) passa quasi inosservata. Eppure il suo prodigarsi per esaudire il Conte non è dovuto a bontà d’animo… In generale lo spostamento all’interno di un teatro fa sì che gli aspetti cinici o scettici della vicenda nello spettacolo abbiano un rilievo inadeguato. Forse va riconosciuta una possibile coerenza tra le proposte di Muscato e la predilezione di Chailly per tempi moderati e per una sottile ricchezza di sfumature, in una concertazione caratterizzata da grande cura dei dettagli. Si direbbe quasi che il direttore fosse teso a riscoprire ciò che può rivelare una chiave di lettura meditata e pensosa, interessata a tutto ciò che può sfuggire alla prepotente vitalità o alla trascinante eccitazione. Così sembravano assumere un significato nuovo i momenti di smarrito disorientamento come quello alla fine del primo atto (“Mi par d’esser con la testa”). Inoltre con grande cura si realizzava un flusso narrativo unitario, in cui si inserivano bene tutti gli interpreti. Si è già detto del felice debutto di Mattia Olivieri nella parte di Figaro. Maxim Mironov era un elegante Almaviva, che ha saputo affrontare anche le difficoltà dell’ultima aria (“Cessa di più resistere”), di solito tagliata. Era destinata al più famoso degli interpreti della prima, al celebre tenore Manuel Garcia, e ne fa in un certo senso il protagonista. La tagliò poi anche lo stesso Rossini, che ne riprese la musica in Cenerentola. Marco Filippo Romano era un ottimo Bartolo e Nicola Ulivieri un autorevolissimo Basilio. Svetlina Stoyanova era una valida Rosina, disinvolta nella coloratura, con qualche problema nel registro acuto.