La tinta VERDI
Si conclude il Festival del Regio: Requiem grandioso con cast disuguale. Invece nel “Simone” di Mariotti e nel salotto di Oropesa il timbro è inconfondibilmente suo
VERDI
MESSA DA REQUIEM
INTERPRETI M. Agresta, E. Garanca, A. Poli, J. Relyea
DIRETTORE Daniele Gatti
ORCHESTRA Sinfonica Nazionale della Rai ★★★★
VERDI IN SALOTTO SOPRANO Lisette Oropesa PIANOFORTE Francesco Izzo ★★★★★
VERDI
SIMON BOCCANEGRA
INTERPRETI I. Golovatenko, M. Pertusi, A. Meade, R. Della Sciucca, S. Vitale
DIRETTORE Michele Mariotti
ORCHESTRA Comunale Bologna
TEATRO Regio
★★★★
Dopo il bellissimo Ballo in maschera inaugurale affidato al suo direttore musicale Roberto Abbado, il parmigiano festival Verdi è proseguito nel migliore dei modi. Messa da Requiem diretta da Daniele Gatti. Escursioni dinamiche spinte all’estremo (nel Sanctus, sorprendente la morbidezza che l’agogica molto allargata conferisce all’intricato contrappunto delle sue otto parti per doppio coro; e la tellurica potenza impressa al Dies irae o al Rex tremendae majestatis è senz’altro assai effettistica, ma l’effetto funziona anche per il suo contrapporsi al marcato lirismo con cui si plasmano le pagine più intimistiche), lungo percorsi che l’autostrada della nota tradizione abbandonano spesso per avventurarsi su viottoli accidentati, imprevedibili, via via scoprendo particolari inediti qui di timbro o d’armonia, là d’impasti strumentali o profili ritmici, sempre nel quadro d’una cantabilità densa, scura, debordante d’armonici, personalissima. Orchestra della Rai in stato di grazia, e coro parmigiano di Martino Faggiani fenomenale, schierato in alto sull’apertura della verdastra parete concava ch’era la scena del Ballo (dal che una spazialità sonora insolita ma di grande suggestione): schianti di fortissimi costruiti sulla compattezza anziché sui decibel, sussurri accentati in modo sempre diverso, un canto ch’è prodigio di morbidezza, colore, aplomb, quel particolarissimo modo di “dire” Verdi che è cosa solo sua. Il quartetto solista è invece un po’ disuguale. Maria Agresta ha bella voce, bel fraseggio, registro acuto splendido nei pianissimi ma assai meno a voce piena, dove diviene sforzato e di labile confine con l’urlo. Elina Garanca è un prodigio di tecnica ma che esce da un freezer espressivo, sia pure di gran marca. John Relyea con Verdi c’entra poco o niente con la sua emissione gutturaleggiante e tutta di gola. Primeggia Antonio Poli, col suo timbro tenorile di bellezza paradisiaca, linea vocale assai ben emessa quindi morbida, omogenea, duttile nel piegarsi a un fraseggio caldo e d’immediata comunicativa: l’attacco dell’Hostias, sul vaporare di un’orchestra tutta fremiti impalpabili, è stato uno di quei momenti magici da ricordare a lungo. Raffinatissima l’impaginazione del concerto di canto stesa da Lisette Oropesa e dal musicologo-pianista Francesco Izzo: che c’introduce in uno di quei salotti ottocenteschi (quello milanese di Clarina Maffei vien subito in mente) dove musica, letteratura, politica facevano tutt’uno. Se intelligente era il programma, perfetta ne è stata l’esecuzione, che conferma questa cantante come una delle più ferrate nell’attuale universo mondo lirico: ma ancor più stimolante ne è stata l’interpretazione. Accostare Verdi a Schubert nel nome di Goethe (quello di Gretchen); rievocare la malinconia canoviana di Bellini, l’estro spumeggiante di Donizetti, l’ironia di Rossini, il severo mestiere di Mercadante: tutto un alternante trascolorare di chiaroscuri velatamente sensuali occhieggianti dietro versi di sapientissima ambiguità, che definiscono in modo perfetto un’epoca, uno stile, un ambiente. E nei bis (Gilda e Violetta) esplode il virtuosismo sempre supremamente espressivo di questa superba artista, che tuttavia mi ha commosso fino alle lacrime non qui bensì in una paginetta verdiana che non conoscevo, composta per le vittime d’un terremoto in Calabria: una rocciosa, severa intensità da suprema tragédienne.
Il Simon Boccanegra in forma di concerto vede Michele Mariotti riaccostarsi a questo Everest interpretativo con ben altra maturità rispetto al suo primo - e unico - approccio bolognese di quattordici anni fa. Stessa capillare ricchezza analitica, ma che adesso perde ogni scoria di puntiglio esegetico per sciogliersi in una morbidezza canora di tanto più intensa in quanto la severa asciuttezza ne libera tutto il significato espressivo, nell’ambito d’un arco narrativo tenuto in continua tensione dal fraseggio strumentale la cui pulsante tavolozza cromatica trova (nonostante alcuni pasticci in orchestra e ancor più nel coro) quella particolarissima “tinta” - termine assai caro a Verdi - che di quest’opera è tratto il più difficile da cogliere ma anche il più entusiasmante.
Cast che con l’eccezione del tenore Riccardo Della Sciucca (dotatissimo dalla natura ma che al momento impiega solo quella) è di alto livello esecutivo, con qualche bemolle interpretativo. Angela Meade è ad esempio magnifica in fatto di linea vocale ampia, morbida, sicurissima (i pestiferi do del terzetto!), ma il fraseggio è quello del Verdi giovanile dei Lombardi ed Ernani, sicché la matrice squisitamente belcantista del suo canto qui appare non poco interlocutoria. Molto meglio Igor Golovatenko: timbro chiaro, estesissimo, dizione assai buona impiegata per scolpire accenti di grande interesse. Il problema di tutti è, ancora una volta, il confronto diretto con Michele Pertusi: la perfezione assoluta della sua linea vocale quasi non s’avverte nello scavo portentoso della parola