CANTA come leggi
Francesco Meli, al 18° titolo scaligero nel “Macbeth” inaugurale, racconta il suo Verdi, “uno scavo continuo nel testo, senza il quale non è possibile interpretare”. E ora di questa ricerca ha fatto anche un disco
A41 anni è già un veterano scaligero. Il contatore dei titoli cantati a Milano segna già 18: il primo fu nel 2004, in Dialoghi delle Carmelitane (ancora in era Muti); l’ultimo sarà Macduff nel Macbeth inaugurale al fianco di Luca Salsi e Anna Netrebko. C’è abbastanza storia per tracciare un bilancio di un’epoca, ma Francesco Meli, genovese classe 1980, preferisce di solito raccontarsi ai suoi allievi. “Ho un’intensa attività di insegnamento - ci spiega in mezzo alle prove di Macbeth con Riccardo Chailly - soprattutto da quando dirigo la nuova Accademia per cantanti al Carlo Felice”.
Meli, sapere cosa dice ai suoi allievi ci dirà qualcosa anche su di lei.
“Dirigo un’Accademia di canto, è vero, ma i nuovi cantanti non dovrebbero avere solo il canto tra le proprie abilità. Ricordo ancora quando un famoso interprete mi disse beatamente ‘Francesco, ma tu suoni il pianoforte’. E io gli risposi: ‘Anche tu sei un musicista, se canti’. Quando andavo in Conservatorio i cantanti erano considerati quasi la feccia perché si riteneva che non sapessero la musica. Storture del pensiero. Nell’Ottocento i cantanti erano compositori, strumentisti, grandi tecnici della voce, capaci di scrivere arie e variazioni, spesso collaboravano con i grandi compositori. Poi tutto questo si è andato perdendo
e siamo diventati degli esecutori”.
L’attorializzazione dei cantanti è ormai un processo irreversibile. Ma spesso bisogna incontrare grandi registi per metterla in pratica.
“Che sia un processo già in atto è vero. E da qui non si può più tornare indietro. Ho avuto la fortuna di lavorare con Martone, Vick, Kosky, artisti che non si accontentano del cantante e delle sue buone intenzioni. Anche Livermore è uno di questi. Poi, essendo lui anche tenore, conosce la musica e le sue necessità”.
Cosa vi dice in prova?
“Questo Macbeth è quasi come un film. C’è un grande lavoro sulle singole scene e sui singoli momenti: in prova ci ripete continuamente di non metterci le mani sulla faccia, cosa che nel teatro di prosa sarebbe anche ammessa, ma in televisione no. Quando scopro che Duncano è morto so di dover tenere la tensione al massimo, ma so anche che non canto solo per il pubblico in sala. La tv è come una radiografia e l’espressione deve essere perfetta per il mezzo che ci riprende”.
Il suo 7 dicembre quando è cominciato?
“Non vorrei esser frainteso quando dico che non c’è una preparazione ad hoc per questo appuntamento. Che sia importante, è fuori di dubbio. Ma non salgo sul palcoscenico con più cura per una data o per un’altra. Il mio primo 7 dicembre coincise anche con la mia prima recita in Scala nel 2005 (Idomeneo). Nel 2004, infatti, si cantava ancora agli Arcimboldi. Dopo quasi vent’anni posso dire di conoscere tutti e di sentirmi come in una grande famiglia allargata”.
Converrà che la diretta in mondovisione non è cosa di tutti i giorni.
“Il punto è soprattutto questo: il 7 dicembre è un momento cruciale per rappresentare l’opera. In quel momento siamo davvero gli ambasciatori di un mondo. Molte persone entrano in contatto con il teatro grazie a questa giornata”.
Dopo vent’anni di carriera cos’ha interiorizzato di Verdi e del suo teatro?
“Che concentrarsi solo sulla vocalità è un errore. Il cantante verdiano, se così si può definire, è colui che più di altri deve lavorare sul testo, capire perché è stata scritta quella nota sopra quella precisa parola. In Verdi al 99% c’è una ragione drammaturgica, non melodica. È stato, non per caso, il più grande drammaturgo musicale”.
Non sempre inteso così, però.
“Verdi è stato quasi sempre tradito in favore della pura vocalità: i risultati erano straordinari, ma io dico che potevano essere ancora più straordinari. Non vorrei essere mal interpretato: non sto criticando i grandi. Ma pensate se Corelli, con la sua voce unica, si fosse soffermato di più sulla drammaturgia sulle intenzioni di certe pause, sullo scavo del testo. Il risultato sarebbe stato inimmaginabile”.
Ma i cantanti di oggi leggono davvero i testi e le fonti?
“Per me è un lavoro indispensabile. Per Traviata mi sono riletto la ‘Signora delle camelie’. E altrettanto direi per Macbeth, Otello o altri titoli. Oggi se un cantante ha voglia di fare musica non deve pensare solo agli acuti, ma dev’essere anche un ricercatore. E il discorso non vale solo per Verdi, ovviamente. Pensate al famoso sillabato di Dulcamara in Elisir, che Donizetti scrive con ritmi variegati, tutti da prendere al balzo. Quando i miei ragazzi in Accademia se ne sono resi conto non stavano più nella pelle”.
Cos’è che ingabbia ancora gli interpreti oggi?
“Io penso che la vera gabbia sia la tradizione, non la filologia, perché la tradizione ti fornisce un solo esempio, un solo modo di agire. In pratica, ti viene detto ‘Fai come faceva quello prima di te’. Se invece si parte dal testo, lo si acquisisce e lo si fa proprio, allora sì che si diventa liberi di aprire un ventaglio di possibilità, non infinito, ma certamente molto ampio”.
Di recente apparizione il suo primo disco da solista, pubblicato da Warner con l’Orchestra del Maggio Musicale diretta da Marco Armiliato. “Prima Verdi”. Un invito, un programma elettorale, un incoraggiamento?
“Non volevo il solito titolo in inglese. E così, immaginando un titolo breve, immediatamente comprensibile, ho pensato a qualcosa che riassumesse tutto quello che ci siamo detti finora. Prima viene Verdi, poi noi. È un album cronologicamente orientato, dalle opere degli anni di galera fino alle ultime. È un viaggio nella vocalità verdiana e in tutto ciò che Verdi richiedeva a un cantante: non retorica, ma profondo scavo nel personaggio”.턢