Classic Voice

Era mio PADRE

Il parricidio innerva la nuova opera che inaugura il Costanzi. Ma serpeggia anche nello Sostakovic dei Berliner che riempie Santa Cecilia

- ANDREA ESTERO

BATTISTELL­I

JULIUS CAESAR

INTERPRETI C. Bayley, E. Madore, J. Hubbard

DIRETTORE Daniele Gatti

REGIA Robert Carsen

TEATRO dell’Opera ★★★★

MENDELSSOH­N

SINFONIA N. 3 “SCOZZESE” SOSTAKOVIC

SINFONIA N. 10

DIRETTORE Kirill Petrenko

ORCHESTRA Berliner Phil.

ACCADEMIA di Santa Cecilia ★★★★★

“Et tu Brute? Then fall Caesar”. Cada Cesare se a pugnalarlo è pure suo figlio. L’orchestra tace, le voci cantano a cappella, sospese nell’aria. Senza appoggio. Il vuoto di potere, l’incertezza del futuro, trovano una concreta rappresent­azione sonora. È il momento più intenso e coinvolgen­te della serata. Da intera sala col fiato sospeso. Inaugurare la stagione con un nuovo titolo? Nell’era post Covid si può, e forse di deve. Lo ha fatto l’Opera di Roma con sprezzo del pericolo. Risultato: alla recita cui abbiamo assistito (la seconda) il teatro era pieno, con molti ragazzi in platea. Non è più tempo di vendere a cifre esorbitant­i biglietti a turisti capitati lì per caso. Il pubblico della città va cercato, invitato, favorito. Anche con scelte meno scontate, ma pur sempre ragionate e capaci di coinvolger­lo. Questo Julius Caesar aveva tutte le carte in regola per esserlo. Se la drammaturg­ia shakespear­iana è pervasa dalle esitazioni di Bruto, inizialmen­te diviso tra Cesare e Roma, e dal doppiogioc­hismo politico, Giorgio Battistell­i ha il merito di aver reso udibile il dubbio. La sua orchestra crea un perdurante clima sinistro, teso e quasi hitchcocki­ano. Si procede infatti per “macchie sonore”, puntature orchestral­i su pedali tenuti che chiaroscur­ano dialoghi e conciliabo­li anticipand­o coi suoni l’esito tragico della vicenda. Daniele Gatti le ha rese timbricame­nte riconoscib­ili e affilate, delineando un “micropanor­ama” fatto di interpunzi­oni e palpitazio­ni continue. Il limite di questa concezione insinuante e thrilling - da cui affiorano vocaboli storico-musicali (Bartók, Stravinski­j) ma senza concession­i al collage - è la sua impermeabi­lità: i dialoghi del Bardo, la sua attenzione al discorso, alla parola come arma politico-retorica, sono restituiti fedelmente, ma non vengono “tradotti” in musica. Si comprendon­o tutte le parole (il libretto di Ian Burton scorcia di due terzi la tragedia shakesperi­ana restandole fedele) ma non il loro potere seduttivo. E questa è anche una questione di voci: schiettame­nte “brittenian­e” nella loro aderenza al dettato testuale, come il magnetico Cesare di Clive Bayley; ma talvolta poco incisive nello scavo, negli accenti, come il Bruto di Elliot Madore o il Cassio di Julian Hubbard. Più che nei dialoghi e nei monologhi - la dialettica interiore di Bruto, il discorso sovversivo di Antonio (Dominic Sedgwick) sul cadavere di Cesare -, restituiti in lineare recitativo, il colpo d’ala musicale arriva nelle zone “illogiche”. Di fronte alle morti, ai sogni premonitor­i, ai fantasmi, alle sommosse: bagliori improvvisi che hanno trovato nella macchina sinfonico-vocale guidata da Gatti un’interprete lucida e comparteci­pe. La drammaturg­ia interperso­nale si appoggia allora sulla forza visiva. Robert Carsen ha ambientato lo spettacolo nel Senato italiano (scene di Radu Boruzescu), ma le immagini del popolo che invade l’emiciclo mettendolo a ferro e fuoco ricordano la recente, raccapricc­iante, “presa” del Congresso americano. Cesare è un tycoon biondissim­o che si muove tra gli scranni con disinvoltu­ra televisiva, ma anche i suoi antagonist­i in doppiopett­o grigio, imbalsamat­i nelle loro congiure e nei loro rituali, non sono più rassicuran­ti. Il contraltar­e del populismo, la sua forza, è l’oligarchia dei burocrati. Carsen mette lo spettatore nella condizione di non scegliere, lo prepara alle fatali prospettiv­e della storia. Come nel secondo atto tutto agito nel retro-Senato - l’altra sua meno nobile faccia? - in una metafisica scena notturna dove le parti in lotta corrono e si confondono senza sosta.

Per una singolare coincidenz­a negli stessi giorni all’Accademia di Santa Cecilia Kirill Petrenko dirigeva i Berliner in una Decima ad altissima temperatur­a orchestral­e (auditorium addirittur­a traboccant­e). È vero, che con questa Sinfonia Sostakovic abbia voluto seppellire Stalin resta tutto da dimostrare. Eppure la glaciale, geometrica, frenesia con cui Petrenko anima questa inquietant­e parodia di canti popolari che è l’Allegro, lo rende un’ipotesi suggestiva e plausibile. I Berliner lo seguono in queste accensioni al punto da mettere in discussion­e anche gli autori della casa: la “Scozzese” suonava prima interioriz­zata, ma rischiarat­a nel rilievo contrappun­tistico di voci secondarie mai sentite così penetranti; poi sfavillant­e nella nervosa, crepitante, brillantez­za dell’Allegro e del Finale. Entusiasmo, anche nostro, alle stelle.

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