Era mio PADRE
Il parricidio innerva la nuova opera che inaugura il Costanzi. Ma serpeggia anche nello Sostakovic dei Berliner che riempie Santa Cecilia
BATTISTELLI
JULIUS CAESAR
INTERPRETI C. Bayley, E. Madore, J. Hubbard
DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA Robert Carsen
TEATRO dell’Opera ★★★★
MENDELSSOHN
SINFONIA N. 3 “SCOZZESE” SOSTAKOVIC
SINFONIA N. 10
DIRETTORE Kirill Petrenko
ORCHESTRA Berliner Phil.
ACCADEMIA di Santa Cecilia ★★★★★
“Et tu Brute? Then fall Caesar”. Cada Cesare se a pugnalarlo è pure suo figlio. L’orchestra tace, le voci cantano a cappella, sospese nell’aria. Senza appoggio. Il vuoto di potere, l’incertezza del futuro, trovano una concreta rappresentazione sonora. È il momento più intenso e coinvolgente della serata. Da intera sala col fiato sospeso. Inaugurare la stagione con un nuovo titolo? Nell’era post Covid si può, e forse di deve. Lo ha fatto l’Opera di Roma con sprezzo del pericolo. Risultato: alla recita cui abbiamo assistito (la seconda) il teatro era pieno, con molti ragazzi in platea. Non è più tempo di vendere a cifre esorbitanti biglietti a turisti capitati lì per caso. Il pubblico della città va cercato, invitato, favorito. Anche con scelte meno scontate, ma pur sempre ragionate e capaci di coinvolgerlo. Questo Julius Caesar aveva tutte le carte in regola per esserlo. Se la drammaturgia shakespeariana è pervasa dalle esitazioni di Bruto, inizialmente diviso tra Cesare e Roma, e dal doppiogiochismo politico, Giorgio Battistelli ha il merito di aver reso udibile il dubbio. La sua orchestra crea un perdurante clima sinistro, teso e quasi hitchcockiano. Si procede infatti per “macchie sonore”, puntature orchestrali su pedali tenuti che chiaroscurano dialoghi e conciliaboli anticipando coi suoni l’esito tragico della vicenda. Daniele Gatti le ha rese timbricamente riconoscibili e affilate, delineando un “micropanorama” fatto di interpunzioni e palpitazioni continue. Il limite di questa concezione insinuante e thrilling - da cui affiorano vocaboli storico-musicali (Bartók, Stravinskij) ma senza concessioni al collage - è la sua impermeabilità: i dialoghi del Bardo, la sua attenzione al discorso, alla parola come arma politico-retorica, sono restituiti fedelmente, ma non vengono “tradotti” in musica. Si comprendono tutte le parole (il libretto di Ian Burton scorcia di due terzi la tragedia shakesperiana restandole fedele) ma non il loro potere seduttivo. E questa è anche una questione di voci: schiettamente “britteniane” nella loro aderenza al dettato testuale, come il magnetico Cesare di Clive Bayley; ma talvolta poco incisive nello scavo, negli accenti, come il Bruto di Elliot Madore o il Cassio di Julian Hubbard. Più che nei dialoghi e nei monologhi - la dialettica interiore di Bruto, il discorso sovversivo di Antonio (Dominic Sedgwick) sul cadavere di Cesare -, restituiti in lineare recitativo, il colpo d’ala musicale arriva nelle zone “illogiche”. Di fronte alle morti, ai sogni premonitori, ai fantasmi, alle sommosse: bagliori improvvisi che hanno trovato nella macchina sinfonico-vocale guidata da Gatti un’interprete lucida e compartecipe. La drammaturgia interpersonale si appoggia allora sulla forza visiva. Robert Carsen ha ambientato lo spettacolo nel Senato italiano (scene di Radu Boruzescu), ma le immagini del popolo che invade l’emiciclo mettendolo a ferro e fuoco ricordano la recente, raccapricciante, “presa” del Congresso americano. Cesare è un tycoon biondissimo che si muove tra gli scranni con disinvoltura televisiva, ma anche i suoi antagonisti in doppiopetto grigio, imbalsamati nelle loro congiure e nei loro rituali, non sono più rassicuranti. Il contraltare del populismo, la sua forza, è l’oligarchia dei burocrati. Carsen mette lo spettatore nella condizione di non scegliere, lo prepara alle fatali prospettive della storia. Come nel secondo atto tutto agito nel retro-Senato - l’altra sua meno nobile faccia? - in una metafisica scena notturna dove le parti in lotta corrono e si confondono senza sosta.
Per una singolare coincidenza negli stessi giorni all’Accademia di Santa Cecilia Kirill Petrenko dirigeva i Berliner in una Decima ad altissima temperatura orchestrale (auditorium addirittura traboccante). È vero, che con questa Sinfonia Sostakovic abbia voluto seppellire Stalin resta tutto da dimostrare. Eppure la glaciale, geometrica, frenesia con cui Petrenko anima questa inquietante parodia di canti popolari che è l’Allegro, lo rende un’ipotesi suggestiva e plausibile. I Berliner lo seguono in queste accensioni al punto da mettere in discussione anche gli autori della casa: la “Scozzese” suonava prima interiorizzata, ma rischiarata nel rilievo contrappuntistico di voci secondarie mai sentite così penetranti; poi sfavillante nella nervosa, crepitante, brillantezza dell’Allegro e del Finale. Entusiasmo, anche nostro, alle stelle.