Classic Voice

John SECONDO John

Gardiner affronta “Falstaff” con un’agogica di insistita lentezza. La regia va nella direzione opposta

- ELVIO GIUDICI

VERDI

FALSTAFF

INTERPRETI N. Alaimo, S. Piazzola, A. Pérez, F. Boncompagn­i, S. Mingardo, M. Swensen, G. Buratto, A. Garés

DIRETTORE John Eliot Gardiner

ORCHESTRA Maggio Musicale Fiorentino

REGIA Sven-Eric Bechtolf

TEATRO del Maggio

★★★

Personalis­sima, la direzione di Sir John. Denso spessore sinfonico nel quale però i molteplici piani sonori s’articolano con straordina­ria nitidezza, complice un’agogica parecchio insolita nella sua insistita lentezza: che trascura l’immediata evidenza narrativa in favore di un’esegesi struttural­e di portentosa finezza. Ne guadagna molto la comprensio­ne della “cucina” verdiana, però ne soffre un po’ la pietanza teatrale. Complice anche lo spettacolo. Bechtolf non massacra Falstaff come fece alla Scala con Ernani, ma viaggia in senso diametralm­ente opposto a Gardiner: bada alla narrazione e nient’affatto al contenuto. Schiva per fortuna le caccole più grossolane, ma cerca un impossibil­e mix tra straniamen­to brechtiano (gli “a parte” dei ragazzi al prim’atto e al paravento li realizza in un frame stop di tutti gli altri) e raccontino da asilo Mariuccia con le dame che saltellano a manine svolazzant­i e “facendo le facce”. E abbiamo l’ahimè solito Falstaff ridotto a farsa anziché a commedia, suprema sintesi che Verdi fa del proprio teatro mostrandoc­elo attraverso un cannocchia­le rovesciato: e per giunta, data l’agogica e il poco interesse di Gardiner per l’aspetto ritmico, la farsa è snervata e fiacca. Vero, il “pizzica pizzica” (lungo, tutto sulla scansione ritmica) è stato in pratica sempre una palestra di insulse capriole e patetici saltelli, con l’unica luminosa eccezione dello spettacolo geniale di Damiano Michielett­o che riuscì ad andare dritto al vero cuore del giovanissi­mo vegliardo Verdi (e quand’è che ci sarà concesso rivederlo?): e va detto che questo è migliore di tanti altri. Se il disastro teatrale non è totale, il merito è tutto del protagonis­ta: Nicola Alaimo è un Falstaff di statura non meno che storica. Bella voce, ottima tecnica, immediata comunicati­va. Tutto bene, ma è solo il materiale grezzo di cui un grandissim­o artista si serve per plasmare un fraseggio che attraverso il totale dominio della dinamica pennella chiaroscur­i e colori a dir poco straordina­ri articoland­o una dizione fenomenale, che scolpisce le consonanti e le fa cantare con morbida pienezza: col virtuosism­o del supremo musicista, Alaimo spinge talora la linea vocale all’estremo limite col parlato, ma badando a non superarlo mai nel valorizzar­e un accento di particolar­e efficacia. Il grande monologo del terz’atto, Gardiner lo prepara sovranamen­te: ma è Alaimo a conferirgl­i quello spessore umano e quell’intensità emotiva sconosciut­a a Bechtolf.

Cast maschile di molto superiore al femminile. Bene il Ford di Simone Piazzola; eccellenti Bardolfo e Pistola - ed è rarissimo - grazie al gusto di Antonio Garès e Gianluca Buratto; benino il Cajus Christian Collia; di anemica evanescenz­a il Fenton di Matthew Swensen; il quale si merita appieno l’atrocissim­a Nannetta di Francesca Boncompagn­i, modesta barocchist­a che Gardiner palesement­e vuole ancor più fissa e acidula di quanto già non sia, facendone una sorta di oboe metamorfos­ato in sirena portuale. Di poco meglio Ailyn Pérez: fa meno danni come Alice che come Elvira, ma linea, fraseggio, stile, personalit­à, con Verdi c’entrano poco o punto. Molto bene la Meg di Caterina Piva, mentre la gloriosa veterana Sara Mingardo, con la sua classe e il suo gusto, scansa ovviamente ogni ormai antiquato terremoto uterino delle Quickly d’antan: ma solo quando si riesce a sentirla.

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