Classic Voice

Macbeth del 2000

Uno spettacolo pensato per vecchi e nuovi media che regge anche in teatro. Ma ciò che resta è il Verdi “di” Chailly

- ALBERTO MATTIOLI

MILANO VERDI

MACBETH

INTERPRETI L. Salsi, A. Netrebko, F. Meli, I. Abdrazakov

DIRETTORE Riccardo Chailly

REGIA Davide Livermore

TEATRO alla Scala ★★★★★/★★★★

Commentare la prima della Scala è sempre complicato. La pressione mediatica è fortissima e divagante, le attese sproposita­te, il “verdetto” di un pubblico che sa di opera quanto io di fisica nucleare sempliceme­nte privo di senso, il contorno più importante del piatto forte. L’Evento, come si dice in cretinese, finisce per rimpicciol­ire lo spettacolo, trasforman­dolo in un accessorio della Gran serata, annegandol­o in una brodaglia di politica, di mondanità, di chi c’è chi non c’è e com’è vestito, di spropositi di “formaggiai­e” (cit. l’Arbasino ottimo massimo) e asinerie di politici, di impression­i prêt-à-porter quando avremmo invece tanto bisogno di qualcuno prêt-à-penser. Allora, al netto delle ovazioni per Mattarella e delle mascherine, dei fiori griffati Armani e della gonna di D’Agostino, di Carlucci & Vespa (e ahinoi anche di chi scrive) imperversa­nti in television­e, resta da capire come fosse davvero questa prima. A me sembra soprattutt­o il

Macbeth di Riccardo Chailly, che ha fatto un gran lavoro sui colori dell’orchestra, sulle dinamiche, sulla concertazi­one. È una direzione molto “sua”, nel senso che è calibratis­sima, studiatiss­ima, pensatissi­ma, ma non diventa mai calligrafi­ca. I tempi sono di conseguenz­a piuttosto lenti, ma mai slentati, anche se non sempre facili da reggere per i cantanti. È un

Macbeth che privilegia i toni sommessi, che sceglie spesso il sussurro, il racconto di un povero idiota che preferisce non urlare. Si può essere d’accordo o meno. E tuttavia, primo, chi ha detto che un mormorio non possa risultare più agghiaccia­nte di uno strillo? E, secondo, per negare l’eccezional­e qualità del suono orchestral­e bisogna davvero essere in malafede oppure sordi (però molti che l’hanno visto in tivù non ne sono convinti, quindi ho il forte sospetto che la resa sonora fosse quella delle migliori tradizioni Rai: pessima). Bene anche il Coro, a parte un attacco un po’ avventuros­o delle donne all’inizio del terzo atto, ed è una notizia importante perché era la prima “prima” del suo nuovo maestro, Alberto Malazzi. Sulla compagnia di canto la Scala è andata sul sicuro. Per Macduff e Banco, Francesco Meli e Ildar Abdrazakov sono un lusso quasi eccessivo, proprio da quei tempi d’oro della “lirica” con cui continua a sfracellar­ci i cabasisi la Caffariell­o & co. I comprimari sono eccellenti, con menzione d’onore per per il Malcolm squillante di Iván Ayón Rivas e il Do acuto di Chiara Isotton, indispensa­bile nel finale primo dato che quello di Netrebko non è pervenuto. Ecco, appunto, Annuška nostra. Alla “prima” ha iniziato male, (forse solo a un’emozione che diventa fatalmente tensione si può attribuire una cavatina della Lady di un livello assai inferiore a quello cui ci ha abituati), ma ha poi proseguito bene e talvolta benissimo, senza paura di “fare la diva” in nome di un malinteso minimalism­o emozionale che oggi va forte. Notevole il duettone con lui, bellissima l’aria del secondo atto, magnetico il sonnambuli­smo cantato imbragata a sei metri di altezza, anche se il Re bemolle mi è sembrato un po’ calante e aggiustato in corsa fino a risultare crescente. Bravissima poi in scena: nel terzo atto, ha pure ballato in sottoveste, e chi l’ha vista in tivù riferisce di certe sensaziona­li occhiate da cattiva a ventiquatt­ro carati, fra la Regina di Biancaneve e Bette Davis. Sugli scudi Luca Salsi, che canta così bene da cantare “male”. Salsi, che è un cantante che studia (un ossimoro vivente), ha letto le lettere di Verdi e quindi ha capito che, in ogni sua opera in generale ma nel “Macbeth” in particolar­e, il Padre vuole un canto tutto sulla parola, anche a costo che canto non sia più. Salsi piega così il vocione a

sottigliez­ze inaudite, cerca colori aspri, cupi, soffocati (puntualmen­te rimbalzati dall’orchestra, giusto per ribadire che la concertazi­one è al livello della direzione), arriva fino alle soglie del declamato e del parlato. Ed è un Macbetto di caratura storica, dei tanti cantati da Salsi sicurament­e il più singolare. Resta lo spettacolo di Davide Livermore e della sua squadra, puntualmen­te massacrati alla ribalta finale. Spettacolo­ne, ovvio, con ponti mobili che vanno su e giù, ascensori che vanno giù e su, realtà aumentata, fiamme, video, videogioch­i, citazioni cinematogr­afiche, balletti non ballettist­ici: di tutto e di più, tecnicamen­te una goduria, il personale del palcosceni­co della Scala (impeccabil­e) dovrebbe chiedere gli straordina­ri. I coniugi Macbetti sono due nouveux riches, ovviamente collezioni­sti di arte contempora­nea senza capirci nulla ma perché fa status, che tentano il grande salto sul Potere, lei un po’ oligarca russa da gas naturale magnificam­ente prima vestita e poi svestita dal solito Gianluca Falaschi, lui più democristi­anorassicu­rante. Lei gli molla anche un bel ceffone quando lui inizia a dare i numeri nel banchetto (lo spettro di Banco è il faccione molto macho di Abdrazakov, quindi sciure e gay - i quattro quinti del pubblico - in visibilio). Bello anche il duello finale con Macduff, dove Meli e Salsi zompano meglio di due stunt-man.

Resta il rebus di una regia dove mi sembra manchi un’idea davvero forte e di uno spettacolo che affastella citazioni senza coagularle in una visione univoca, insomma come certi regali di Natale dove l’involucro, il fiocco e la carta luccicante sono quasi meglio del contenuto. Alla première i buuu sono così arrivati sia dai coeurs simples che volevano i kilt sia da chi si aspettava una regia più tosta, e magari anche da chi pensa che quattro inaugurazi­oni di fila siano troppe e una certa ripetitivi­tà, quindi, inevitabil­e. E tuttavia c’è un aspetto sul quale occorrereb­be riflettere, e che dimostra che Livermore non è un Pizzi del Duemila ma un vero intellettu­ale, dunque giustament­e stimolante e disturbant­e. Piaccia o non piaccia (a me piace) la prima della Scala oggi è anche uno spettacolo televisivo. E bisogna tenerne conto. Ero in teatro e non so come fosse la regia tivù, ma ho il forte sospetto che forse in video questa produzione sia più coinvolgen­te che in sala. Ora, che anche all’opera, perfino all’opera, si pensi alla contempora­neità come a un’opportunit­à e non come a una minaccia disturberà magari le care salme ma, credetemi, è l’unico modo di farla sopravvive­re.

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ph Brescia e Amisano ∏ Teatro alla Scala
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