Pe in tour
Il 23 febbraio Raffaele Pe debutta all’Accademia di Santa Cecilia, con la sua orchestra La lira di Orfeo, in un programma tutto monteverdiano (le più belle arie dalle opere e dalle pagine sacre). Con lo stesso programma monteverdiano tornerà alla Wigmore Hall di Londra in giugno, mese in cui farà anche il suo debutto nel ruolo del titolo in Tamerlano di Handel, al Grange Festival.
vocale. Nell’Orfeo abbiamo un grande esempio della sua capacità innovativa, con quell’arioso accompagnato che è una grande conquista, ben prima dell’Orfeo di Gluck. È un vero attore-cantante, non interessato solo a stupire. Lo prova il fatto che a poco più di 30 anni, all’apice di una carriera senza precedenti, decide di lasciare improvvisamente le scene, un po’ come Glenn Gould o Rossini, e va in Spagna dove il re lo vuole come cantante personale ‘per lenire le sue pene’. In pratica Farinelli viene usato come un taumaturgo, una volta riconosciuto in lui il potere di guarire con la voce quello che probabilmente era un grave stato depressivo del sovrano. Altro che puro spettacolo. Qui c’è il succo della musica vocale: è una stella polare per tutti cantanti di oggi”.
Nel suo disco ha inserito un’aria scritta da Handel per Gaetano Berenstadt. Chi era?
“È stato un contralto, particolarmente noto per le sue interpretazioni di cattivo. Le fonti ci dicono fosse molto credibile anche per la sua grossa corporatura. Fu tra gli antieroi preferiti di Handel, ma anche interprete di molte opere di maestri italiani come Vinci e Sarro. Ebbe una carriera lunghissima, durata 27 anni, con 55 opere in repertorio, 33 delle quali di nuova composizione. L’aria ‘Son quel fiume’ dalla Didone Abbandonata di Vinci ben ne rappresenta il carattere tipico, beffardo, quasi violento, il cui furore era ritratto da linee melodiche caratterizzate da salti improvvisi e passaggi di agilità”.
E cosa ci dice del Senesino?
“È un’altra figura meravigliosa, quasi un alter ego di Farinelli. Non a caso nell’Orfeo di Porpora è Aristeo, l’antagonista. Tessitura e colore completamente differenti i suoi. Se Farinelli era considerabile come un soprano, Senesino era un contralto, anche se Handel scrisse in chiave di soprano pure per lui. E questo fa pensare parecchio: cosa voleva dire chiave di soprano all’epoca?”.
Qui entrano in gioco categorie vocali codificate, per non dire cristallizzate nell’Ottocento.
“Codificazioni di cui è in buona parte responsabile il melodramma. Viene allora da chiedersi: cos’è un controtenore? Quest’attenzione per la vocalità del controtenore è sotto i riflettori da relativamente poco tempo, perché sono diventati protagonisti di opere, mentre prima stavano solo nei cori. Ci si metterà ancora qualche anno a classificarci e a renderci ‘classici’ come sono sempre state le voci di soprano. Ma anche un soprano barocco e un soprano verdiano occupano ambiti vocali totalmente differenti”. Dunque il controtenore va solo ri
scoperto, non si è mai estinto.
“Charles Burney nel suo Viaggio in Italia ascolta sia castrati sia contralti maschili. Ne parla anche Monteverdi che quando fa la lista dei cantanti da assumere in Cappella Marciana: c’è la lista dei falsettisti, dei castrati e dei sopranili. È una tradizione centenaria, che a un certo punto si è interrotta. Bisogna solo fare molta sana ricerca vocale. In questo trovo molto utile che la musica contemporanea metta in dubbio i nostri punti fissi”.
Ha già in mente un tabù da sfatare?
“Non vedrei male l’idea che un controtenore possa affrontare Rossini e Donizetti, ovviamente a patto che ci siano le condizioni estetico-musicali per farlo. Potrebbe essere interessante ascoltare Tancredi fatto da un controtenore. Siccome contemporaneità per me significa soprattutto ricerca, ben vengano queste intersezioni, o sovrapposizioni”.
È quello che cercate di indagare con La Lira d’Orfeo?
“La Lira d’Orfeo mi piace definirla come un grande laboratorio artistico. Non si può pensare la musica solo nei suoi aspetti spettacolari ed esecutivi. Bisogna leggere tanta letteratura, aprire saggi, entrare nelle biblioteche, confrontare le fonti, dialogare con musicologi. Anche Riccardo Chailly, in un repertorio già così conosciuto come quello dell’Ottocento, si preoccupa di presentare edizioni inedite, frammenti inascoltati di poche battute: questo è ciò che rende vivo e degno di essere indagato un repertorio già noto a tutti. L’esecuzione oggi non è soltanto momento di godimento estetico ma deve diventare un momento culturale”.
Si sente più un collezionista o un archeologo?
“Più collezionista, perché amo avere quante più notizie possibili sulla voce e i suoi interpreti. In quanto cantante mi interessa il perché vocale, proprio come facevano spontaneamente i barocchi. Perché era ovvio, per loro, partire dalla voce. Del resto, l’Orfeo era ‘di’ Farinelli, non di Porpora. Mi piacerebbe che i giovani avessero curiosità per questo tipo di ricerche. Gli archivi sono un’opportunità enorme ancora da sfruttare. E poi non scordiamoci che i veri grandi erano soprattutto curiosi: sapete quale partitura era sul pianoforte della Callas prima che morisse? La Poppea di Monteverdi”. 턢