Classic Voice

Il VOLGA siamo noi

Lettura sociale e allucinata di Richard Jones nella prima storica “Kat’a Kabanova” apparsa a Roma, dove la protagonis­ta “affoga” in un mare di folla

- LUCA BACCOLINI

ROMA JANÁCEK

KÁNA KABANOVÁ

INTERPRETI C. Winters, C. Workman, J. Hubbard, S. Richardson, S. Bickley

DIRETTORE David Robertson

ORCHESTRA Teatro dell’Opera

REGIA Richard Jones

TEATRO dell’Opera ★★★★

Più che con due anni di ritardo (la prima programmaz­ione era fissata per il 2020, poi sopraggiun­se il Covid), Kat’a Kabanova ci ha messo un secolo di troppo per arrivare a Roma. Quella andata in scena a fine gennaio, infatti, è stata la prima rappresent­azione assoluta romana di uno dei capolavori teatrali di Janácek (e dell’intero XX secolo), una lacuna colmata con un allestimen­to ambizioso, quello che nel 2019 valse al regista inglese Richard Jones il Premio Lawrence Oliver per la “miglior produzione d’opera”. Royal Opera House e Teatro dell’Opera vi hanno riposto sforzi comuni come coprodutto­ri. Diciassett­e anni dopo Jenufa, questo titolo riprende il tema del tribunale sociale di cui ogni piccola comunità è suo malgrado dotata. Il popolino bigotto e ipocrita finisce per condiziona­re un’altra giovane donna, la cui unica colpa è quella di aver ceduto ai suoi sentimenti. Incapace di mentire al marito, Kat’a si getta nel Volga compiendo un gesto liberatori­o. Il primo aspetto che balza agli occhi nella regia di Jones è tuttavia l’assenza dell’elemento naturalist­ico cui la protagonis­ta si rifà di continuo (descrivend­osi ad esempio come “un passerotto gaio”). Robert Carsen, forse il miglior interprete di Kabanova, aveva imboccato la strada opposta, con uno spettacolo interament­e acquatico, giocato sui contrasti di luce. Jones sembra invece voler soprassede­re al dato naturale alla ricerca di quella concretezz­a cui anche Janácek anelava nel tratteggia­re i suoi drammi. E così il villaggio sembra quello iperrealis­ta di un Truman-Show con abitanti vagamente psicotici, rigidi nei movimenti e pressoché privi di espression­i facciali. Una scelta estrema, che allo spettatore impone una decodifica­zione non immediata. Lo spettacolo guadagna senso nel suo procedere in maniera coerente, in un crescendo di tensione scandito dal via-vai sempre più intenso, per non dire impazzito, della folla. Non sarà infatti il Volga a inghiottir­e Kat’a, ma un turbine di suoi concittadi­ni in movimento. Scena teatralmen­te efficaciss­ima, ma un po’ distante dal testo, dove si legge un chiaro riferiment­o al canto degli uccelli, ai colori dei fiori, a un ritorno alla natura primigenia che in questo allestimen­to non perviene mai. Non dev’esser stato facile per i cant-attori coinvolti, a cominciare dall’eccellente Corinne Winters, coniugare il canto urgente in lingua ceca con la ricercata fissità delle espression­i, né per il direttore d’orchestra David Robertson governare una buca allargata fino ai primi palchi laterali per contenere tutte le percussion­i (e garantire il distanziam­ento tra le file). La sua lettura ha privilegia­to l’aspetto intimo della vicenda, come a volerne reprimere la violenza per poi lasciarla sfogare quando le schegge esplose del parlato si erano già posate a terra. Convincent­i i tre tenori (Charles Workman, Sam Furness e Julian Hubbard, quest’ultimo applaudito come Cassius nel Julius Caesar di Battistell­i). Il mezzosopra­no Susan Bickley è una Kabanicha ideale, tagliente e perfida, già scolpita nella memoria.

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