PEDALE magico
Nella poetica di Skrjabin vige “la legge dell’istante”, che premia l’esecuzione dal vivo e penalizza il disco. Ecco chi ha fatto la storia dell’interpretazione del più eccentrico compositore russo
Un discorso sull’interpretazione delle Sonate per pianoforte di Skrjabin deve necessariamente tenere conto del pianismo particolarissimo del compositore stesso, che il critico Grigori Prokof’ev definì così: “Il suono, pur nella continua asprezza perfino quando suona mezzo piano, è meraviglioso e ottiene effetti straordinari. Non bisogna dimenticare che è un mago del pedale, anche se i suoni eterei da lui prodotti non riescono proprio a riempire la sala. Egli avvince il pubblico perché dà l’impressione di improvvisare. Il suono non è potente. Il segreto sta nell’energia del ritmo”. Come pianista, Skrjabin non era considerato inappuntabile: le sue “magie sonore” potevano sedurre follemente o infastidire. Nelle recensioni ricorrevano espressioni come “aritmico”, “nervoso”, “colori ammalianti”, “silenzi carichi di signifiqueste
cato”. Egli diceva che l’interpretazione è “un’arte dell’esperienza”: “Una composizione ha varie sfaccettature, è viva e respira da sé. Oggi è una cosa, domani un’altra, come il mare. Sarebbe terribile se il mare fosse uguale ogni giorno e sempre lo stesso per sempre, come una pellicola cinematografica”. Non è un caso che la musica di Skrjabin trovi la sua dimensione soprattutto dal vivo: la perfezione dell’incisione discografica, a meno che non sia percorsa da un afflato miracoloso, rischia l’intrappolarsi dei suoni in una prospettiva più estetica che autenticamente artistica. Il discepolo Sabaneev afferma che il pubblico di Skrjabin si sentiva sferzare l’anima da correnti elettriche. Ma la sua ispirazione ai limiti della nevrastenia non piaceva a tutti: un pioniere del pianismo scientifico come Cherkass lo definì “un uomo malato, di una malattia interiore che alterava il suo intero sistema nervoso” e che rendeva anormale e rigida la sua muscolatura. Cherkass criticava anche la sua ritmica irregolare, alterata, sfociando in vergognose affermazioni antisemite (Skrjabin, pur non ebreo, aveva per lui il “rubato esasperato” dei pianisti e insegnanti ebrei). Ben più interessante è il punto di vista di un musicista di prima grandezza come Sergei Prokof’ev: “Quando Skrjabin eseguiva la Quinta Sonata, ogni nota si librava in volo. Con Rachmaninov, tutte le note restano a terra”. Chi fu l’erede dei quel modo di suonare rapsodico, ispirato e un po’ folle? Indiscutibilmente, Vladimir Sofronitskij. Non solo per ragioni di affinità musicale e psichica (“Skrjabin è fatto per Sofronitskij, così come Sofronitskij è fatto per Skrjabin” diceva Svjatoslav Richter), ma anche perché ne aveva sposato la figlia, Elena, compagna di studi. Come sosteneva anche Neuhaus, in Sofronitskij regnava la legge dell’istante, dello stato d’animo
del momento. “Il suo Skrjabin è un liquore che dà alla testa, un oppio poetico, un cristallo che si infrange facilmente”. Languore, decadentismo, eros non escludono però un’arte del voicing suprema, portata all’esasperazione nella differenziazione dei piani sonori. Cruciale è l’importanza data alla cantabilità, con un tipo di “pronuncia” del suono che riesce a imitare i portamenti vocali. Il pianista che più di ogni altro ha raccolto il testimone di questa ricerca dell’hic et nunc è un altro gigante del Novecento, Vladimir Horowitz. Curiosamente, né lui né Sofronitskij hanno inciso integralmente le Sonate, preferendo approfondirne solo alcune. In Horowitz, la temperatura emotiva sale spesso ad altezze vertiginose: si ascolti ad esempio Vers la flamme per rendersi conto di quanto il virtuoso di Kiev fosse in grado di restituire il fuoco e l’eros intrinseci a questa musica. Sulla stessa linea troviamo anche Samuil Feinberg, prodigo di squisitezze timbriche e di eloquenza improvvisatoria. Due colossi come Richter e Gilels non sono riusciti a ritrovare lo spirito dionisiaco originario. Richter ammetteva di non essere uno skrjabiniano purosangue e di non potersi nutrire quotidianamente di questo “liquore”. Tuttavia, la sua interpretazione della Quinta Sonata (Praga, 1972) è molto interessante nell’evidenziare gli aspetti esoterici e allucinati, quasi stranianti, accentuando una sorta di bipolarismo: cristallini e nitidissimi alcuni momenti, estremamente violenti e oscuri altri. Gilels va invece in una direzione opposta, inaugurando una visione più “classica” del compositore: per lui, Skrjabin è musica assoluta, da svincolare dalle mode del tempo, come una bellezza da trattare secondo le leggi del buon gusto. Se però Gilels riesce ancora a essere travolgente e pieno di pathos nei punti culminanti, questa visione classicista (soprattutto dopo l’affermarsi del disco) inaugura uno stile esecutivo che smarrisce la libertà originaria, per focalizzarsi fin troppo nel culto del dettaglio. Nella seconda metà del Novecento, pianisti di prima levatura come Vladimir Ashkenazy, John Ogdon, Garrick Ohlsson o Marc André
Hamelin, pur realizzando mirabili integrali, non riescono a cogliere quegli aspetti irrazionali che sono fondamentali per restituire l’afflato delle Sonate. Certamente, soprattutto nel caso di Ashkenazy, vi è un acume speciale nel cogliere l’architettura complessiva, nonché un pianismo adamantino e crepitante. Ma questa assoluta chiarezza sembra talvolta in conflitto con le pedalizzazioni oniriche e quasi fumose che Skrjabin applicava. Più sottilmente sensuale, seppur molto nitida, è l’integrale di Roberto Szidon; appassionata ed evocativa quella di Ruth Laredo, folgorata in gioventù dallo Skrjabin di Horowitz; profondissima nel pensiero quella di Elena Richter, allieva di Neuhaus; in equilibrio fra pathos orientale e analisi occidentale quella di Boris Berman. Troppo muscolare invece l’esecuzione di Michael Ponti. Visioni controcorrente rispetto alla nitidezza in voga nel secondo Novecento sono quelle di Igor Zhukov (più nel live che in disco) e Nelson Freire, capaci di trascendere la percussione del tasto in una liquidità amniotica molto seducente. Una particolare attenzione al melos traspare nelle interpretazioni ipnotiche, sebbene un po’ rachmaninoviane, di Sergio Fiorentino e Lazar Berman. Fra i pianisti dei giorni nostri, colpisce l’attitudine mistica di Pletnev, miracoloso nelle sonorità più immateriali, mentre Ivo Pogorelich e Anatol Ugorsky rischiano troppo spesso di smarrirsi nel culto del dettaglio (ma la sonorità del primo è infinitamente più sensuale e ricercata). Fra le integrali più felici degli ultimissimi anni si ricorderanno infine quella di Vincenzo Maltempo, in equilibrio fra ricercatezza strutturale e istinto dionisiaco; Hakon Austbø, con squisiti pianissimi disegnati a punta fine; Nuccio Trotta, di inusuale lirismo e senso drammatico; Maria Lettberg, per l’attenzione al testo e la fantasia discorsiva. Infine, uno skrjabiniano da riscoprire: Evgenij Mikhailov, stupefacente per proiezione sonora e urgenza espressiva.