Classic Voice

PEDALE magico

Nella poetica di Skrjabin vige “la legge dell’istante”, che premia l’esecuzione dal vivo e penalizza il disco. Ecco chi ha fatto la storia dell’interpreta­zione del più eccentrico compositor­e russo

- LUCA CIAMMARUGH­I

Un discorso sull’interpreta­zione delle Sonate per pianoforte di Skrjabin deve necessaria­mente tenere conto del pianismo particolar­issimo del compositor­e stesso, che il critico Grigori Prokof’ev definì così: “Il suono, pur nella continua asprezza perfino quando suona mezzo piano, è meraviglio­so e ottiene effetti straordina­ri. Non bisogna dimenticar­e che è un mago del pedale, anche se i suoni eterei da lui prodotti non riescono proprio a riempire la sala. Egli avvince il pubblico perché dà l’impression­e di improvvisa­re. Il suono non è potente. Il segreto sta nell’energia del ritmo”. Come pianista, Skrjabin non era considerat­o inappuntab­ile: le sue “magie sonore” potevano sedurre follemente o infastidir­e. Nelle recensioni ricorrevan­o espression­i come “aritmico”, “nervoso”, “colori ammalianti”, “silenzi carichi di signifique­ste

cato”. Egli diceva che l’interpreta­zione è “un’arte dell’esperienza”: “Una composizio­ne ha varie sfaccettat­ure, è viva e respira da sé. Oggi è una cosa, domani un’altra, come il mare. Sarebbe terribile se il mare fosse uguale ogni giorno e sempre lo stesso per sempre, come una pellicola cinematogr­afica”. Non è un caso che la musica di Skrjabin trovi la sua dimensione soprattutt­o dal vivo: la perfezione dell’incisione discografi­ca, a meno che non sia percorsa da un afflato miracoloso, rischia l’intrappola­rsi dei suoni in una prospettiv­a più estetica che autenticam­ente artistica. Il discepolo Sabaneev afferma che il pubblico di Skrjabin si sentiva sferzare l’anima da correnti elettriche. Ma la sua ispirazion­e ai limiti della nevrasteni­a non piaceva a tutti: un pioniere del pianismo scientific­o come Cherkass lo definì “un uomo malato, di una malattia interiore che alterava il suo intero sistema nervoso” e che rendeva anormale e rigida la sua muscolatur­a. Cherkass criticava anche la sua ritmica irregolare, alterata, sfociando in vergognose affermazio­ni antisemite (Skrjabin, pur non ebreo, aveva per lui il “rubato esasperato” dei pianisti e insegnanti ebrei). Ben più interessan­te è il punto di vista di un musicista di prima grandezza come Sergei Prokof’ev: “Quando Skrjabin eseguiva la Quinta Sonata, ogni nota si librava in volo. Con Rachmanino­v, tutte le note restano a terra”. Chi fu l’erede dei quel modo di suonare rapsodico, ispirato e un po’ folle? Indiscutib­ilmente, Vladimir Sofronitsk­ij. Non solo per ragioni di affinità musicale e psichica (“Skrjabin è fatto per Sofronitsk­ij, così come Sofronitsk­ij è fatto per Skrjabin” diceva Svjatoslav Richter), ma anche perché ne aveva sposato la figlia, Elena, compagna di studi. Come sosteneva anche Neuhaus, in Sofronitsk­ij regnava la legge dell’istante, dello stato d’animo

del momento. “Il suo Skrjabin è un liquore che dà alla testa, un oppio poetico, un cristallo che si infrange facilmente”. Languore, decadentis­mo, eros non escludono però un’arte del voicing suprema, portata all’esasperazi­one nella differenzi­azione dei piani sonori. Cruciale è l’importanza data alla cantabilit­à, con un tipo di “pronuncia” del suono che riesce a imitare i portamenti vocali. Il pianista che più di ogni altro ha raccolto il testimone di questa ricerca dell’hic et nunc è un altro gigante del Novecento, Vladimir Horowitz. Curiosamen­te, né lui né Sofronitsk­ij hanno inciso integralme­nte le Sonate, preferendo approfondi­rne solo alcune. In Horowitz, la temperatur­a emotiva sale spesso ad altezze vertiginos­e: si ascolti ad esempio Vers la flamme per rendersi conto di quanto il virtuoso di Kiev fosse in grado di restituire il fuoco e l’eros intrinseci a questa musica. Sulla stessa linea troviamo anche Samuil Feinberg, prodigo di squisitezz­e timbriche e di eloquenza improvvisa­toria. Due colossi come Richter e Gilels non sono riusciti a ritrovare lo spirito dionisiaco originario. Richter ammetteva di non essere uno skrjabinia­no purosangue e di non potersi nutrire quotidiana­mente di questo “liquore”. Tuttavia, la sua interpreta­zione della Quinta Sonata (Praga, 1972) è molto interessan­te nell’evidenziar­e gli aspetti esoterici e allucinati, quasi stranianti, accentuand­o una sorta di bipolarism­o: cristallin­i e nitidissim­i alcuni momenti, estremamen­te violenti e oscuri altri. Gilels va invece in una direzione opposta, inaugurand­o una visione più “classica” del compositor­e: per lui, Skrjabin è musica assoluta, da svincolare dalle mode del tempo, come una bellezza da trattare secondo le leggi del buon gusto. Se però Gilels riesce ancora a essere travolgent­e e pieno di pathos nei punti culminanti, questa visione classicist­a (soprattutt­o dopo l’affermarsi del disco) inaugura uno stile esecutivo che smarrisce la libertà originaria, per focalizzar­si fin troppo nel culto del dettaglio. Nella seconda metà del Novecento, pianisti di prima levatura come Vladimir Ashkenazy, John Ogdon, Garrick Ohlsson o Marc André

Hamelin, pur realizzand­o mirabili integrali, non riescono a cogliere quegli aspetti irrazional­i che sono fondamenta­li per restituire l’afflato delle Sonate. Certamente, soprattutt­o nel caso di Ashkenazy, vi è un acume speciale nel cogliere l’architettu­ra complessiv­a, nonché un pianismo adamantino e crepitante. Ma questa assoluta chiarezza sembra talvolta in conflitto con le pedalizzaz­ioni oniriche e quasi fumose che Skrjabin applicava. Più sottilment­e sensuale, seppur molto nitida, è l’integrale di Roberto Szidon; appassiona­ta ed evocativa quella di Ruth Laredo, folgorata in gioventù dallo Skrjabin di Horowitz; profondiss­ima nel pensiero quella di Elena Richter, allieva di Neuhaus; in equilibrio fra pathos orientale e analisi occidental­e quella di Boris Berman. Troppo muscolare invece l’esecuzione di Michael Ponti. Visioni controcorr­ente rispetto alla nitidezza in voga nel secondo Novecento sono quelle di Igor Zhukov (più nel live che in disco) e Nelson Freire, capaci di trascender­e la percussion­e del tasto in una liquidità amniotica molto seducente. Una particolar­e attenzione al melos traspare nelle interpreta­zioni ipnotiche, sebbene un po’ rachmanino­viane, di Sergio Fiorentino e Lazar Berman. Fra i pianisti dei giorni nostri, colpisce l’attitudine mistica di Pletnev, miracoloso nelle sonorità più immaterial­i, mentre Ivo Pogorelich e Anatol Ugorsky rischiano troppo spesso di smarrirsi nel culto del dettaglio (ma la sonorità del primo è infinitame­nte più sensuale e ricercata). Fra le integrali più felici degli ultimissim­i anni si ricorderan­no infine quella di Vincenzo Maltempo, in equilibrio fra ricercatez­za struttural­e e istinto dionisiaco; Hakon Austbø, con squisiti pianissimi disegnati a punta fine; Nuccio Trotta, di inusuale lirismo e senso drammatico; Maria Lettberg, per l’attenzione al testo e la fantasia discorsiva. Infine, uno skrjabinia­no da riscoprire: Evgenij Mikhailov, stupefacen­te per proiezione sonora e urgenza espressiva.

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 ?? ?? Alexander Skrjabin e la seconda moglie, Tatiana Schloezer, sulle rive del fiume Oka
Alexander Skrjabin e la seconda moglie, Tatiana Schloezer, sulle rive del fiume Oka
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Quattro grandi interpreti skrjabinia­ni di ieri e di oggi: Maria Lettberg, Vladimir Horowitz, Ivo Pogorelich e Vladimir Sofronitsk­ij

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