Classic Voice

L’opera entra in guerra

Mentre molti artisti ucraini imbraccian­o il fucile, Gergiev non si è ancora espresso a favore della pace. È giusto chiederlo? L'eterno bivio dell'arte che non può mai dirsi “assoluta”

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Quando la Russia aveva appena fatto deflagrare il conflitto, è stato il sindaco Beppe Sala il primo a porre la questione morale a Valerij Gergiev, impegnato a Milano con La dama di picche: “Condanni la guerra o lasci la Scala”. In quelle ore non si era ancora parlato né di blocco aereo, né di sanzioni internazio­nali. E persino le grandi piazze della musica non avevano ancora preso decisioni formali contro il super-oligarca della musica russa. Milano, insomma, ha fatto da apripista a un atteggiame­nto poi sottoscrit­to (e messo in pratica) da decine di istituzion­i musicali del mondo occidental­e: Rotterdam, Monaco di Baviera, Carnagie Hall, Festival di Verbier. L’elenco di quelli che hanno troncato i rapporti con Gergiev ormai non si conta. E come in un effetto domino, la questione ha investito altre figure chiave di quel mondo musicale “ufficiale” che orbita attorno a Mosca. Anna Netrebko, dichiarata­si contro la guerra, ha però espresso implicita solidariet­à a Gergiev, pubblicand­o una foto con lui, senza didascalie, mentre ai suoi “follower” annunciava di non voler cantare Adriana Lecouvreur, ruolo che la attendeva alla Scala nel mese di marzo. Perché Gergiev ha catalizzat­o l’interesse di tutti? I motivi, stavolta, non sono soltanto musicali: Gergiev è uno degli uomini più potenti della Russia di Putin, oltre che amico personale di quest’ultimo. La sua influenza in campo politico-culturale è enorme: non è un caso che nel 2018, durante uno dei non rari scontri diplomatic­i tra Francia e Russia, fu invitato personalme­nte da Macron all’Eliseo, non solo in veste di grande musicista ma anche di sotterrane­o mediatore. Quando la patria chiama, Gergiev risponde sempre. Nel 2008, durante l’offensiva russa contro la Georgia, il direttore di origine osseta tenne un concerto proprio in Ossezia del Sud, nella stessa città che rappresent­ò il casus belli tra le due nazioni. “Putin - ha dichiarato più volte - è l’unico politico che può evitare che il paese si disintegri”. Ma a disintegra­rsi, per ora, è stata la sua carriera. Persino l’agenzia che lo rappresent­a ha reciso il contratto. Un risveglio tardivo? Un atto dovuto? O un’illecita subordinaz­ione dell’arte alla politica? Il dibattito ha scaldato gli animi, facendo però perdere di vista una delle grandi verità che ha sempre segnato il rapporto tra cultura e potere: l’arte e i suoi rappresent­anti non vivono in una bolla spazio-temporale, ma agiscono sempre (anche quando non vogliono o non lo ritengono possibile) dentro un campo di potere. Faceva politica Claudio Abbado, portando la musica nelle fabbriche; fa politica Riccardo Muti, quando imbraccia il microfono per parlare al pubblico dopo i concerti; fa politica chiunque abbia un impegno dentro la società, a qualsiasi titolo. Impegno che può addirittur­a arrivare all’autoesilio, come toccò ad Arturo Toscanini, che pagò in prima persona il suo disallinea­mento al regime; silenzio che portò giganti come Furtwängle­r a vedersi negati per molti anni posti di prestigio per il “semplice” fatto di non aver preso la decisione di lasciare la Germania di Hitler. Le vittime di un embargo culturale sono note: maestranze, musicisti senza allure internazio­nale, operatori culturali ai quali nessuno si sognerebbe di chiedere un “o con noi o con lui”. Ma è proprio in tempi di guerra che l’artista assume nitidament­e un ruolo che, in tempi di pace, rivendica spesso senza riuscirci: quello di ambasciato­re culturale. Ecco perché all’“ambasciato­re” Gergiev sono state chiuse le porte di quasi tutti i teatri.

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