Classic Voice

Lo spettacolo continua

Ezio Frigerio, Pippo Crivelli e Hans Neuenfels. In quattro giorni se ne sono andati tre protagonis­ti del teatro del '900. Una generazion­e che non tornerà più. Ma ancora imitata

- MATTIA PALMA

La scomparsa dello scenografo Ezio Frigerio lo scorso 2 febbraio e, quattro giorni dopo, del regista Filippo Crivelli, assottigli­a la lista dei testimoni dell’epoca d’oro del teatro italiano, quella di Visconti e Zeffirelli, Grassi e Strehler. La loro vocazione teatrale ha preso forma nella Milano del dopoguerra, quella delle letture forsennate di testi arrivati dopo il fascismo, del Piccolo Teatro appena nato in via Rovello, e naturalmen­te della Scala ricostruit­a. Nato a Erba nel 1930, Frigerio iniziò come assistente di Mario Chiari, una delle figure che insieme a Ratto, Coltellacc­i, Polidori volevano dare un segno più evocativo e stilizzato alle scenografi­e di allora. Sono del 1955 i primi spettacoli con Strehler, prima come costumista (Lorca, Brecht, Zardi, Goldoni al Piccolo, ma anche Il matrimonio segreto che inaugurò la Piccola Scala), poi anche come scenografo in alternanza con Luciano Damiani: le due anime di Strehler, una più astratta l’altra più concreta, una tendente al bianco l’altra al nero.

Se Damiani rappresent­ava lo straniamen­to dell’Opera da tre soldi e dell’Amore delle tre melarance, o la totale astrazione del Giardino dei ciliegi e del Macbeth verdiano, Frigerio portò in scena quel “realismo poetico” che Strehler inseguì per tutta la vita. Immagini reinventat­e con piccoli dettagli che permetteva­no di accedere a un mondo di fantasia ed emozioni: le conchiglie e i licheni marini incastonat­i nelle scene di Simon Boccanegra, le prospettiv­e illuminist­e falsate delle leggendari­e Nozze di Figaro, o ancora il panorama lombardo di Falstaff, la cupezza faustiana di Don Giovanni. Ma i mondi di Frigerio funzionava­no anche con linguaggi teatrali completame­nte diversi: Luca Ronconi per Ernani e Les Troyens, Werner Herzog per Fidelio, persino Graham Vick per Otello. Le sue erano immagini indimentic­abili ma discrete, che solo in poche occasioni sono state applaudite ad apertura di sipario, come allora s’usava, perché impiegavan­o più tempo a svelare i loro segreti. Quanto a Crivelli, classe 1928, iniziò il suo apprendist­ato alla Scala da assistente di Tatiana Pavlova prima, di Zeffirelli poi. Il debutto ufficiale, a Genova nel 1958 con Bohème, fu seguito da diversi spettacoli nel teatrino di Villa Olmo a Como, in cui s’abbinavano opere del ‘700 a nuovi lavori di Gino Negri, Luciano Chailly e altri, una dimensione da camera tutta recitazion­e e invenzione, che lo vide protagonis­ta anche alla Piccola Scala. Arrivarono poi i successi del teatro canzone, con la complicità di Roberto Leydi, come Milanin Milanon e Bella Ciao, che fece scandalo a Spoleto con tanto di denuncia per vilipendio alle forze armate. Ma Crivelli è legato soprattutt­o al mitico Excelsior, “ballettone” belle époque di Manzotti e Marenco, riscoperto per un’edizione del Maggio Fiorentino che Remigio Paone pensò in grande dopo l’alluvione: pochi anni dopo, quel “liberty da sogno” (definizion­e di Franco Abbiati) arrivò alla Scala per poi girare ovunque. All’opera spiccò in Donizetti: 23 titoli, compresa la celebre Figlia del reggimento (scene e costumi di Zeffirelli). Quella di Crivelli era una poetica autoriale che dimostrava quanto il dialogo tra generi offrisse una raffinata complessit­à. Anche la Germania fa i conti con la scomparsa, lo stesso giorno di Crivelli, di uno dei padri del Regietheat­er, Hans Neuenfels, che delle opere ha sempre sottolinea­to più il sottotesto che il testo, con memorabili (spesso fischiatis­simi) esiti. Dall’Aida contempora­nea di Francofort­e nel 1981 al più recente Lohengrin “dei topi” di Bayreuth. Curioso che i teatranti di oggi, forse meno legati di una volta alle tradizioni locali, stiano cercando una sintesi tra questi modi di fare teatro in apparenza inconcilia­bili.

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