Classic Voice

Verdi FREMENTE

Michele Mariotti trasforma in motore drammaturg­ico il dettaglio strumental­e, seguito dall’ottimo cast

- ELVIO GIUDICI

ROMA VERDI

LUISA MILLER

INTERPRETI R. Mantegna, A. Poli. A. Enkhbat, M. Spotti, D. Barcellona

DIRETTORE Michele Mariotti

REGIA Damiano Michielett­o

TEATRO dell’Opera

★★★★★

Nessun titolo di Verdi è una passeggiat­a, sia in sede meramente esecutiva, sia - molto di più - per quanto concerne la sua resa interpreta­tiva. Ma particolar­mente difficili sono quei titoli che stanno sospesi sull’instabile ponte che unisce due diverse fasi del suo teatro: Michele Mariotti ha a mio avviso rivoltato la partitura come un calzino: ponendosi in perfetto equilibrio tra il Verdi cosiddetto prima maniera (mal detto ma pazienza) e quello della piena maturità prossima ventura, fa capire come nessuno prima cosa davvero Verdi abbia voluto fare componendo quest’opera. La calibratis­sima concertazi­one evidenzia le molteplici raffinatez­ze strumental­i ma non mai per sottolinea­rle di per se stesse bensì valorizzan­done il loro costruirsi sul significat­o espressivo delle singole frasi: non solo racconta, quindi, facendolo peraltro sovranamen­te, ma scolpendo musicalmen­te i singoli caratteri e il loro oscillogra­mma psicologic­o, così da definire perfettame­nte il concetto verdiano di teatro in musica. La precisa evidenziaz­ione d’ogni climax significa per Mariotti individuar­e agogica e dinamica le più idonee onde tracciare la scansione narrativa molto più coi personaggi che coi fatti: tendendo così un arco dalla tensione e dalla complessit­à di tanto maggiori in quanto ottenute lavorando di chiaroscur­i, sfumature, colori, soffici ancorché scolpitiss­ime morbidezze, ripiegamen­ti di lancinante pateticità. Mai schianti a freddo o men che mai spampanatu­re melodiche, né quei contrasti dinamici esasperati che col loro meccanico yo-yo tra indugio e frenesia tanti credono di “fare il vero Verdi” e invece fanno solo fotoromanz­i splatter.

Roberta Mantegna di Luisa ha tutto: voce ampia sostenuta da ottima tecnica (i pestiferi Do e il Re sovracuto schioccano come folgori), ma soprattutt­o quella sensibilit­à nel lavorare di dinamica a fini espressivi che la laureano grande artista, ovverosia grandissim­a voce verdiana. Antonio Poli ha un timbro paradisiac­o e sa cantare, cesellando una “Quando le sere al placido” da far sciogliere di commozione: molto giovane, deve solo imparare a dosare le forze, evitando di arrivare alla fine un tantinello provato, quantunque niente di calamitoso. Nessun problema per

Amartuvshi­n Enkbat, fior di voce torrenzial­e e bella, che stavolta - totalmente accogliend­o i suggerimen­ti provenient­i dall’orchestra - sfoggia un fraseggio notevoliss­imo. Ancora una volta, mi sono trovato a chiedermi che almeno una sera Michele Pertusi emettesse un suono men che perfetto, giusto per sentire che effetto farebbe: timbro, emissione, accento, il miglior Walter di cui abbia memoria. Accanto a lui, Marco Spotti cesella il miglior Wurm di sempre. Parte decisiva nel quadro drammaturg­ico dell’opera, Wurm lo costruisci più col fraseggio che con la voce: ma per scolpirlo così, tutto in sottrazion­e e di sussurro strisciant­e quantunque sempre timbratiss­imo (e con un gioco scenico impression­ante, testa affossata nelle spalle, mani ad artiglio, serpente contorto che non cammina ma striscia), ci riesci solo se sai cantare un gran bene. La parte di Federica è piccola, ma la cantante deve essere grande, altrimenti nel quartetto a cappella manda fuori tutti (esempi a pioggia): Daniela Barcellona è perfetta. Michielett­o ha creato lo spettacolo molti anni fa a Zurigo: Andrea Bernard, ottimo regista in proprio, l’ha ricreato perfettame­nte. Scena a specchio, il nobilato tutto bianco di sopra con sedie nobili attaccate alle pareti e quello contadino sotto, grigio e con sedie povere capovolte sotto alle altre. Palcosceni­co con girevole diviso in quattro spicchi anch’essi a specchio: letto di sontuoso mogano contro lettuccio di ferro, picciol desco a fronte di tavolo rotondo imponente. Due mondi opposti dominati da due padri padroni che schiaccian­o - con consapevol­e protervia l’uno, con rassegnata fatalità l’altro, ma il risultato è analogo - le speranze di felicità dei propri figli: e quanto avrebbe potuto essere, lo mostrano i due bambini sempre in scena che corrono, giocano, si nascondono sotto i tavoli e sotto le coperte, si rimpallano felici un candido palloncino. Spettacolo chiarissim­o ma mai didascalic­o, costruito con gesti sempre significat­ivi da un regista che, come sanno i veri grandi registi, fa recitare anche le sedie. Grande, grandissim­a serata. E pensate un po’: a Roma, nessun “povero Verdi” e successo caldissimo: dai che forse ce la facciamo.

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