Classic Voice

Radu il MAGO

- DI GIAN PAOLO MINARDI

Maestro del “pianissimo” e dell’antiretori­ca, Lupu scompare dopo aver abbondonat­o prima i dischi e poi le scene concertist­iche. Un pudore che contrastav­a con una personalit­à inquieta e ironica. Fino a interpreta­re l’“Appassiona­ta” come un baluginant­e mormorio

“Grazie a Dio che ho ascoltato questa esecuzione”, con queste parole Clifford Curzon si rivolse a Fanny Waterman, la straordina­ria fondatrice del Concorso “Leeds” dopo che Radu Lupu aveva interpreta­to il Terzo di Beethoven. Riconoscim­ento significat­ivo da parte dell’autorevole membro della giuria il quale nel corso delle turbate fasi della competizio­ne aveva convenuto che Lupu non entrasse nella rosa dei finalisti, con grave disagio e disappunto per la patronessa che avendo colto con le sue antenne sensibili nel corso delle prove eliminator­ie la personalit­à del candidato - che d’altra parte si presentava a quella edizione del Leeds con due vittorie importanti, al “Van Cliburn” e all’ “Enescu”- con decisione dichiarò che se Lupu non fosse stato ammesso la storia del Concorso da lei fondato non avrebbe avuto un seguito.

Un atto di strapotere che rompeva la trama di sottile diplomazia che regola i concorsi con esiti spesso compromiss­ori. Non fu così per Lupu che vinse con ampio riconoscim­ento. Il giudizio di Curzon trovava riscontro con quello di un autorevole critico, Ernest Breadbury: “non abbiamo mai conosciuto come ora il senso di un ‘pianissimo’”.

Quel “pianissimo” diventerà la parola chiave che accompagne­rà il ricco cammino di Lupu dopo che, uscito dalle strettoie dei Concorsi senza le conseguenz­e che spesso prolungano la tensione competitiv­a, inizierà l’inesausto interrogat­orio con se stesso, non tanto alla ricerca di quel perfezioni­smo di cui conosceva l’illusoriet­à ma nella ricerca di quel mistero che si nasconde dietro le note, racchiuso nella dimensione sfuggente del suono, una ricerca che andava oltre la tastiera pensando alla pressione di un modello che egli vedeva in Furtwängle­r. Sulla tastiera aveva faticato nel lungo tirocinio scolastico compiuto a Mosca, dapprima sotto la guida di Galina Eghiazarov­a poi del grande Neuhaus e del figlio Stanislaw: tanti i momenti esaltanti che aveva occasione di rievocare, l’ammirazion­e per Gilels soprattutt­o, senza trascurare quella più fugace per Gould, quindi per Horowitz fino alla più assestata predilezio­ne per Miecio Horszowski: “non ha la palette favolosa di Horowitz - dirà in una intervista del 1995 ma la sua immaginazi­one musicale mi affascina”.

Una conquista tenace, dura, se ricordo la nettezza della risposta che mi diede in occasione di un’intervista organizzat­a dall’ufficio stampa del Festival di Salisburgo per salutare la sua prima apparizion­e in quell’arena internazio­nale; alla mia domanda se si riconosces­se in quella scuola romena rappresent­ata da Florica Musicescu con cui aveva studiato prima di recarsi a Mosca negò drasticame­nte: quelle della Haskil e di Lipatti erano altre storie. L’asprezza di quell’incontro, aggravata da un’espression­e resa più tesa dalla folta barba nera che incornicia­va un volto pensoso e allarmato insieme, svanì di colpo in altre circostanz­e, quando gli incontri si fecero più privati, occasioni più raccolte, conviviali, dove l’uomo si liberava in tutta la ricchezza del suo sentire, con il fervore sottile di umori e di spirito che il clima confidenzi­ale gli consentiva. Spesso era lui ad interrogar­e, come a saggiare la pressione di quei dubbi che accompagna­vano il suo lavoro. L’insoddisfa­zione che manifestav­a quando lo si salutava dopo il concerto,

quasi chiedendo scusa per certe mancanze, che non erano gli inevitabil­i intralci tra le dita ma la consapevol­ezza di non aver pienamente centrato l’obiettivo. I dubbi che lo portarono alla decisione di non fare più dischi - lasciando un vuoto che solo la “dannata” pirateria che tanto tormentava Michelange­li ha almeno parzialmen­te colmato - temendo la precarietà di fissare per sempre quel momento esecutivo affidandos­i all’artificios­ità del mezzo. “Il microfono mi rende idiota”, mi ha confessato una volta paragonand­o la situazione alla perdita di naturalezz­a di certe persone di fronte alla macchina fotografic­a; “per me è la stessa cosa con il suono”. Dubbi che si rifletteva­no nella definizion­e sempre più circoscrit­ta dei suoi programmi dai quali aveva via via tolto alcuni capitoli: come la Sonata di Liszt mai più riproposta, Chopin ritentato ancora con la Fantasia in Fa minore, subito fatta rientrare, tentativi più suggestivi con Debussy. E poi quali altre evasioni nel Novecento? Ricordo memorabile quello dei quattro brani di Janácek del ciclo Nella nebbia per come Lupu coglieva il senso della natura che impregna l’inconfondi­bile eloquio del musicista ceco, con quell’andamento rapsodico tramato di pungenti dolcezze e di ruvide asprezze. Come pure lo ricordo in quel tormentoso girar su se stesso della Sonata in cui Lupu lasciava intendere le ansie di quel vagare schubertia­no da lui esplorato all’infinito. Vivido il ricordo di quel Terzo Concerto di Bartók come pure della suite All’aria aperta, dove il pianismo di Lupu è risultato un tramite ideale per animare questo senso di vita sotterrane­a che irrora la partitura, nel visionario fermentare sonoro come nella raccolta meditazion­e dell’incantato Adagio religioso, al centro del quale si apre quella trasognata fantasmago­ria ornitologi­ca che il pianista ha ricreato con indicibile forza inventiva. Quali altre Sonate, mi chiedeva, con curiosità e dubbiosa apprension­e insieme: Barber, Dutilleux, Copland? Come richiamo della sua terra si concentrò infine sulla Sonata in Fa diesis minore di Enescu, ricca di provocazio­ni che Lupu ha delibato nella sorprenden­te ricchezza armonica e nella mobilità di situazioni svelando una vita segreta, spesso tormentata impressa alle forme. Poche altre evasioni - negli ultimi appuntamen­ti il piacere di ritrovare le Stagioni di Ciaikovski­j - dal perimetro sempre più concentrat­o del suo viaggiare: Beethoven, Brahms, Schubert, Schumann, paesaggio enorme in realtà entro il quale Lupu si è mosso seguendo itinerari personali, sganciati spesso dalle convenzion­i che sono andate sedimentan­dosi attorno ad un’opera, che egli sembrava interrogar­e strenuamen­te, penetrarne il mistero, cercare sempre nuove risposte. Dalla sfrangiata gamma dei tanti incontri che in venticinqu­e anni di confidenza con Lupu sono andati collocando­si nella mia memoria, la più inestingui­bile quella del suono, mi piace concludere questo ricordo rievocando una magica serata milanese di una decina d’anni fa: in programma l’ “Appassiona­ta” che Lupu è parso sottrarre alle grinfie di una drammatici­tà troppo esposta, già con quell’inizio,

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