Radu il MAGO
Maestro del “pianissimo” e dell’antiretorica, Lupu scompare dopo aver abbondonato prima i dischi e poi le scene concertistiche. Un pudore che contrastava con una personalità inquieta e ironica. Fino a interpretare l’“Appassionata” come un baluginante mormorio
“Grazie a Dio che ho ascoltato questa esecuzione”, con queste parole Clifford Curzon si rivolse a Fanny Waterman, la straordinaria fondatrice del Concorso “Leeds” dopo che Radu Lupu aveva interpretato il Terzo di Beethoven. Riconoscimento significativo da parte dell’autorevole membro della giuria il quale nel corso delle turbate fasi della competizione aveva convenuto che Lupu non entrasse nella rosa dei finalisti, con grave disagio e disappunto per la patronessa che avendo colto con le sue antenne sensibili nel corso delle prove eliminatorie la personalità del candidato - che d’altra parte si presentava a quella edizione del Leeds con due vittorie importanti, al “Van Cliburn” e all’ “Enescu”- con decisione dichiarò che se Lupu non fosse stato ammesso la storia del Concorso da lei fondato non avrebbe avuto un seguito.
Un atto di strapotere che rompeva la trama di sottile diplomazia che regola i concorsi con esiti spesso compromissori. Non fu così per Lupu che vinse con ampio riconoscimento. Il giudizio di Curzon trovava riscontro con quello di un autorevole critico, Ernest Breadbury: “non abbiamo mai conosciuto come ora il senso di un ‘pianissimo’”.
Quel “pianissimo” diventerà la parola chiave che accompagnerà il ricco cammino di Lupu dopo che, uscito dalle strettoie dei Concorsi senza le conseguenze che spesso prolungano la tensione competitiva, inizierà l’inesausto interrogatorio con se stesso, non tanto alla ricerca di quel perfezionismo di cui conosceva l’illusorietà ma nella ricerca di quel mistero che si nasconde dietro le note, racchiuso nella dimensione sfuggente del suono, una ricerca che andava oltre la tastiera pensando alla pressione di un modello che egli vedeva in Furtwängler. Sulla tastiera aveva faticato nel lungo tirocinio scolastico compiuto a Mosca, dapprima sotto la guida di Galina Eghiazarova poi del grande Neuhaus e del figlio Stanislaw: tanti i momenti esaltanti che aveva occasione di rievocare, l’ammirazione per Gilels soprattutto, senza trascurare quella più fugace per Gould, quindi per Horowitz fino alla più assestata predilezione per Miecio Horszowski: “non ha la palette favolosa di Horowitz - dirà in una intervista del 1995 ma la sua immaginazione musicale mi affascina”.
Una conquista tenace, dura, se ricordo la nettezza della risposta che mi diede in occasione di un’intervista organizzata dall’ufficio stampa del Festival di Salisburgo per salutare la sua prima apparizione in quell’arena internazionale; alla mia domanda se si riconoscesse in quella scuola romena rappresentata da Florica Musicescu con cui aveva studiato prima di recarsi a Mosca negò drasticamente: quelle della Haskil e di Lipatti erano altre storie. L’asprezza di quell’incontro, aggravata da un’espressione resa più tesa dalla folta barba nera che incorniciava un volto pensoso e allarmato insieme, svanì di colpo in altre circostanze, quando gli incontri si fecero più privati, occasioni più raccolte, conviviali, dove l’uomo si liberava in tutta la ricchezza del suo sentire, con il fervore sottile di umori e di spirito che il clima confidenziale gli consentiva. Spesso era lui ad interrogare, come a saggiare la pressione di quei dubbi che accompagnavano il suo lavoro. L’insoddisfazione che manifestava quando lo si salutava dopo il concerto,
quasi chiedendo scusa per certe mancanze, che non erano gli inevitabili intralci tra le dita ma la consapevolezza di non aver pienamente centrato l’obiettivo. I dubbi che lo portarono alla decisione di non fare più dischi - lasciando un vuoto che solo la “dannata” pirateria che tanto tormentava Michelangeli ha almeno parzialmente colmato - temendo la precarietà di fissare per sempre quel momento esecutivo affidandosi all’artificiosità del mezzo. “Il microfono mi rende idiota”, mi ha confessato una volta paragonando la situazione alla perdita di naturalezza di certe persone di fronte alla macchina fotografica; “per me è la stessa cosa con il suono”. Dubbi che si riflettevano nella definizione sempre più circoscritta dei suoi programmi dai quali aveva via via tolto alcuni capitoli: come la Sonata di Liszt mai più riproposta, Chopin ritentato ancora con la Fantasia in Fa minore, subito fatta rientrare, tentativi più suggestivi con Debussy. E poi quali altre evasioni nel Novecento? Ricordo memorabile quello dei quattro brani di Janácek del ciclo Nella nebbia per come Lupu coglieva il senso della natura che impregna l’inconfondibile eloquio del musicista ceco, con quell’andamento rapsodico tramato di pungenti dolcezze e di ruvide asprezze. Come pure lo ricordo in quel tormentoso girar su se stesso della Sonata in cui Lupu lasciava intendere le ansie di quel vagare schubertiano da lui esplorato all’infinito. Vivido il ricordo di quel Terzo Concerto di Bartók come pure della suite All’aria aperta, dove il pianismo di Lupu è risultato un tramite ideale per animare questo senso di vita sotterranea che irrora la partitura, nel visionario fermentare sonoro come nella raccolta meditazione dell’incantato Adagio religioso, al centro del quale si apre quella trasognata fantasmagoria ornitologica che il pianista ha ricreato con indicibile forza inventiva. Quali altre Sonate, mi chiedeva, con curiosità e dubbiosa apprensione insieme: Barber, Dutilleux, Copland? Come richiamo della sua terra si concentrò infine sulla Sonata in Fa diesis minore di Enescu, ricca di provocazioni che Lupu ha delibato nella sorprendente ricchezza armonica e nella mobilità di situazioni svelando una vita segreta, spesso tormentata impressa alle forme. Poche altre evasioni - negli ultimi appuntamenti il piacere di ritrovare le Stagioni di Ciaikovskij - dal perimetro sempre più concentrato del suo viaggiare: Beethoven, Brahms, Schubert, Schumann, paesaggio enorme in realtà entro il quale Lupu si è mosso seguendo itinerari personali, sganciati spesso dalle convenzioni che sono andate sedimentandosi attorno ad un’opera, che egli sembrava interrogare strenuamente, penetrarne il mistero, cercare sempre nuove risposte. Dalla sfrangiata gamma dei tanti incontri che in venticinque anni di confidenza con Lupu sono andati collocandosi nella mia memoria, la più inestinguibile quella del suono, mi piace concludere questo ricordo rievocando una magica serata milanese di una decina d’anni fa: in programma l’ “Appassionata” che Lupu è parso sottrarre alle grinfie di una drammaticità troppo esposta, già con quell’inizio,