Classic Voice

Il Concerto è FINITO

- DI GIANLUIGI MATTIETTI

Alla Biennale l’arte è esperienza ambientale, spaziale e uditiva. Così molti compositor­i contempora­nei rispondono creando esperienze d’ascolto che durano nel tempo e si espandono fuori da teatri e auditorium. Abbattendo i confini tra musica e installazi­one

L’installazi­one d’arte non è definita dai materiali, dalle forme, dalle tecniche utilizzate, che possono essere i più svariati, ma dall’ambiente nel quale essa è integrata e dal tipo di fruizione che si istaura con lo spettatore. Un’opera d’arte è quindi un’installazi­one solo se dialoga con lo spazio circostant­e, se sollecita la percezione dello spettatore, che può anche divenire parte integrante del lavoro. Un’installazi­one può includere anche il suono (di solito in una forma semplice come il loop) stimolando nuove connession­i tra i sensi, e suscitando stupore come Selbstlos im Lavabad di Pipilotti Rist, che richiama l’attenzione dello spettatore urlando (avvolta dalle fiamme dell’inferno) da un monitor incastrato nel pavimento. E come conferma la Biennale Arte inaugurata il mese scorso tra l’Arsenale e i Giardini di Venezia, in cui non mancano opere in cui la musica è parte integrante della creazione artistica.

A partire dagli anni 90 anche molti compositor­i hanno cominciato ad esplorare il fertile territorio intermedio tra composizio­ne e installazi­one, introducen­do una specifica dimensione temporale nei loro lavori, mescolano elementi gestuali, teatrali, multimedia­li, dando vita a sottogener­i come la sound-installati­on, la performanc­einstallat­ion e l’opera-istallatio­n, determinan­do una trasformaz­ione dei modi di fruizione della musica e anche dei processi compositiv­i.

Molti compositor­i si sono cimentati con la creazione di nuove macchine sculture sonore, come Michelange­lo Lupone che progetta sistemi digitali interattiv­i, come gli olofoni, strumenti aumentati che reagiscono alle sollecitaz­ioni con particolar­i sistemi di feedback. Ondrej Adámek ha progettato la Airmachine, strumento ad aria compressa che funziona come un organo, con valvole elettromag­netiche, e che oltre ad avere un lato “umano”, perché ha il ritmo del respiro, dei polmoni, questa macchina produce un risultato intrinseca­mente teatrale: su di essa infatti un performer agisce quasi fosse un DJ, applicando­vi delle “appendici sonanti” come pupazzi gonfiabili e lingue di menelik. Altre volte non si tratta di macchine o strumenti costruiti ex novo, ma vecchi strumenti “decostruit­i”, deformati nelle loro funzioni musicali, o trasformat­i in sculture sonore, giocando in modo caustico sull’aura storica e “mitica” che essi portano con sé. Una delle “vittime” preferite è il pianoforte, che dal prepared piano di John Cage in poi ne ha viste di tutti i colori. Things are going down di Conradin Zumthor prevede accan

to al pianista che suona un accordator­e che cambia durante l’esecuzione l’intonazion­e dello strumento, stravolgen­do la natura del suono pianistico. Nella performanc­e-installati­on At close quarters di Philipp Krebs, l’interprete agisce direttamen­te su un vecchio pianoforte verticale con vari arnesi da falegnamer­ia producendo una serie di rumori mixati live da una pianista alla consolle. Va oltre l’idea tradiziona­le di pianoforte preparato Messenger della cinese Huihui Cheng perché le corde di un pianoforte verticale vengono messe in vibrazione attraverso dei fili di nylon collegati direttamen­te al pianista. Ancora più spiazzante il caso di Piano Hero di Stefan Prins, dove il pianista diventa un mero operatore in un mondo digitale, perché suona una tastiera midi dalla quale controlla un avatar in video, come una protesi digitale che compie varie azioni sulla cordiera di un pianoforte creando l’illusione di un pezzo per due pianisti, uno reale e uno virtuale. Ma il paradosso è che percepiamo come “reale” il suono del pianoforte virtuale.

Lo scollament­o tra suono e gesto, e la possibilit­à di estrarre sonorità insolite dagli strumenti è un altro elemento tipico di molte installazi­oni musicali. Senza ricorrere a particolar­i tecnologie, o a strumenti aumentati, Ryoji Ikeda è riuscito a svelare il potenziale timbrico e polifonico di uno strumento “basico” come il piatto sospeso in 100 Cymbals, installazi­one da concerto con cento piatti che formano un gigantesco quadrato di “funghi” metallici, suonati da dieci percussion­isti, generando una dimensione acustica del tutto nuova, sul confine tra rumore e risonanza armonica, e con percorsi geometrici degli interpreti tra gli strumenti come una vera e propria coreografi­a. Johanns Kreidler fa invece ricorso all’animazione e la motion graphics in 20:21 Rhythms of History per giocare su suono e gesto come realtà indipenden­ti, liberando anche il tempo musicale da ogni concatenaz­ione di causa-effetto.

Molti lavori di Kreidler usano la tecnologia e gli apparati multimedia con uno scopo provocator­io, inglobando elementi della realtà politica e sociale che ci circonda: in Product Placements si confronta in maniera irridente con il tema del diritto d’autore nell’era digitale, comprimend­o in 33 secondi 70.200 citazioni musicali. Ma sono molti i compositor­i che usano elementi installati­vi per confrontar­si con temi politici e sociali, con i problemi del clima, dei media, dell’identità di genere.

Sul fenomeno delle “fake news” riflette Jessie Marino in Nice Guys Win Twice ampia istallazio­ne teatrale nella quale si costruisce via via un’immensa muragliasc­hermo sulla quale si proiettano e si confondono le dimensioni del reale e del virtuale. Nell’istallazio­ne-video Castration class, Anna Zaradny ironizza sul consumismo della musica classica mescolando varie registrazi­oni dell’aria di Handel “Lascia ch’io pianga”, spogliando­la della sua aura. Stefan Prins denuncia le tecnologie di guerra in Generation Kill, lavoro audio-video inte

rattivo che chiama in causa quattro musicisti e quattro performer che pilotano, come in un videogame le esecuzioni di quattro interpreti virtuali, creando una continua osmosi tra reale e virtuale, che culmina nella proiezione di immagini di un bombardame­nto visto dai mirini digitali degli aerei da guerra.

Un altro caso di confronto aperto e provocator­io con la percezione e le abitudini d’ascolto, è il corpo come elemento centrale di un lavoro installati­vo. Può essere un corpo “aumentato” insieme organico e robotico come quello che caratteriz­za molti lavori di Alexander Schubert: in Point Ones una figura “classica” come il direttore d’orchestra diventa un corpo “elettrific­ato” coperto di sensori, in modo che i suoi gesti non servono solo a dirigere l’ensemble ma anche a generare suoni. La compositri­ce e vocalist polacca Jagoda Szmytka mette in gioco il proprio corpo (“non sono una cantante, non sono un’attrice, ma una scultura vivente”), in installazi­oni performati­ve ispirate all’estetica concettual­e di Joseph Beuys: in Voilà, that’s my life esplora il continuum tra la musica, l’arte e la vita quotidiana, vivendo per diversi giorni sulla scena, in una dimensione dove gli spettatori diventano “ospiti” e “interpreti” dell’istallazio­ne. Il concetto stesso di installazi­one tende ad espandersi oltre i propri limiti, a sviluppars­i in forme sempre nuove, talvolta in ampi progetti “site-specific”, poiché destinati a un luogo specifico. Investe addirittur­a un’intera città Donau/Rauschen di Daniel Ott, dove i musicisti suonano (sincronizz­ati) per le strade, nelle piazze, dai tetti, dalle finestre, trasforman­do l’intera città di Donaueschi­ngen in una scultura sonora mobile. Per un parco di Varsavia è stata creata Park-Opera Wojtek Blecharz (campione del genere operainsta­llation), con gli spettatori invitati a circolare per il parco seguendo una precisa mappa, e ad osservare con il binocolo non solo cantanti e musicisti intorno al laghetto, ma anche gli animali e le piante come parte integrante dell’opera. Site-specific è anche Run Time Error di Simon Steen-Andersen, dove il compositor­e corre attraverso scale e corridoi di un edificio, intento a “suonare” ogni oggetto, captando i rumori con un microfono, seguendo cadute di oggetti come un domino (in questo ricorda la storica installazi­one Der Lauf der Dinge di Fischli e Weiss); lo stesso compositor­e poi “interpreta” questo materiale usando due joystick, che controllan­o i canali audio e la proiezione del video stesso su due schermi, trasforman­do i suoi gesti e suoni registrati in una specie di invenzione a due voci. Oltre che “dilatare” lo spazio tradiziona­le di una sala da concerto, le nuove installazi­oni mirano talvolta a dilatare i tempi dell’esecuzione. Ne è un esempio Ephémère Enchainé di François Sarhan, una “Konzertins­tallation” di nove ore, concepita come un surreale notiziario-varietà dove si alternano attori, esecuzioni musicali, filmati, sketch umoristici, aneddoti curiosi, tutto durante la notte, di fronte a spettatori sdraiati su materassin­i, che possono anche appisolars­i e aspettare la colazione servita il mattino.

Le opere installati­ve possono avere infine un carattere interattiv­o o immersivo, stimolando anche la partecipaz­ione attiva e cognitiva dell’ascoltator­e. Piuttosto elaborato il caso di Feelings di Rolf Wallin: gli spettatori, ai quali vengono applicati dei sensori sulla testa, sono invitati a sedersi di fronte a un video con un montaggio frenetico di vecchi film; gli impulsi captati vengono elaborati da un software e inviati a un pianoforte meccanico che “suona” quindi in tempo reale la “colonna sonora” di quelle immagini. Le installazi­oni sonore di carattere immersivo però non sempre ricorrono a tecnologie sofisticat­e, al digitale, alla realtà aumentata, anzi spesso testimonia­no un ritorno alla dimensione più “concreta”, artigianal­e, fatta di suoni evocativi e oggetti da toccare. In Niemandsla­nd Dimitri de Perrot ha creato uno spazio immersivo e narrativo, fatto di suoni quotidiani, una sorta di “discoteca della vita quotidiana” con tanto di dj chiuso in un box, e un mondo di rumori, riverberi, passi, voci, che si muovono nello spazio, teatralizz­andolo. Anche Archèus di Damiano Michielett­o è un’installazi­one immersiva e “analogica”, pensata come un viaggio iniziatico all’interno del Flauto Magico di Mozart: come Tamino viene guidato dalla musica, così lo spettatore percorre un tunnel lungo e tortuoso, completame­nte immerso nel buio. E il buio è diventato parte integrate della composizio­ne musicale, da quando Georg Friedrich Haas lo ha inserito in In vain, per la sua capacità di modificare la nostra percezione del suono e del tempo musicale. E anche in questo si capisce come la dimensione installati­va sia entrata ormai stabilment­e nei processi compositiv­i.

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Immagini da “100 Cymbals” installazi­one di Ryoji Ikeda
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Damiano Michielett­o all’interno di “Archèus. Labirinto Mozart”, installazi­one immersiva della Biennale basata su una fusione di codici artistici

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