Che DILUVIO di melodrammi
L’altro Donizetti non è autore “minore”. Ma solo “Lucie” in scena convince
DONIZETTI IL DILUVIO UNIVERSALE
DIRETTORE RICCARDO FRIZZA
REGIA MASBEDO
TEATRO DONIZETTI ★★★/★★
ALFREDO IL GRANDE
DIRETTORE CORRADO ROVARIS
REGIA STEFANO SIMONE PINTOR
TEATRO DONIZETTI
★★★
LUCIE LAMMERMOOR
DE DIRETTORE PIERRE DUMOUSSAUD
REGIA JACOPO SPIREI
TEATRO SOCIALE
★★★★
Se il compito di un festival è quello di uscire dai territori rassicuranti del repertorio, il Donizetti Opera, forte di una solida assistenza musicologica, lo ha assolto. A maggior ragione se la sfida riguarda la conoscenza di un autore sommo il cui catalogo è ridotto, nelle correnti messe in scena, a una manciata di titoli. Donizetti ha scritto cinque capolavori e decine di opere convenzionali o irrisolte? Non è vero. E se n’è avuta testimonianza quest’anno. È il caso soprattutto del Diluvio Universale, opera “quaresimale” della prima maturità donizettiana (stesso anno della Bolena), e tutt’altro che di routine: dopo l’introduzione densamente polifonica, colpisce la statura musicale e drammatica di Noé nella grande scena alla fine del secondo atto, tra Mosé e Nabucco; così come l’ultimo pannello precedente il “Diluvio”. Peccato solo che a fronte di un’esecuzione guidata da Riccardo Frizza con asciutta, moderna, sensibilità belcantistica, e di un cast degno della riscoperta (Gianfaldoni, Scala e Di Pierro, basso povero di… bassi), lo spettacolo dei Masbedo non si sia sintonizzato sui personaggi ma solo sul pertinente “concetto” (l’umanità degradata, le inondazioni e il cambiamento climatico di ieri e di oggi), come spesso capita ai videoartisti: il perdurante collage di catastrofi odierne nella prima parte e la ripresa con steady-cam e proiezione su grande schermo di cibo ingurgitato dalle avide fauci dei Satrapi prima del Diluvio, era - a scelta -noioso, disturbante e stucchevole. Nel giovanile Alfredo il Grande, protagonista Antonino Siragusa, il genio è invece ancora in fasce, convive con formule e convenzioni (anche drammaturgiche, come sottolinea il Medioevo di cartapesta e “al quadrato” ricreato in scena da Simone Pintor), ma c’è: e si intravede in quella “banda sul palco” (con partitura scritta per intero dal compositore, caso raro) a cui affidare una funzione concertante rispetto all’orchestra in buca, tenute entrambe in pugno dalla bacchetta scrupolosissima di Corrado Rovaris (con Orchestra Donizetti Opera e coro della Radio ungherese) e che nel finale gareggia con la voce superba di Gilda Fiume in un fluviale, irresistibile, Rondò della primadonna. Anche le riscritture di opere-mito sono un territorio tutt’altro che trascurabile e che il Festival dovrà valorizzare. Quella della Lucia diventata Lucie de Lammermoor per il teatro parigino De La Renaissance è preziosa: si trattava di adattamenti melodici alla prosodie francese, secondo l’estetica conservativa dell’opéra de genre, dove con “genere” s’intendeva proprio quello italiano di dramma lirico “naturalizzato” al gusto d’oltralpe. Poche modifiche, dunque, ma essenziali: Lucia resta l’unica donna in scena (perdendo anche il supporto di Raimondo, qui un semplice “prete protestante”) e nel dialogo iniziale il fratello manifesta il proposito di far uccidere Edgardo, offrendo denaro a Gilbert, personaggio ambiguo e infido più del suo antecedente Normanno. Si accentua una situazione emblematica da “patriarcato”: che la regia di Jacopo Spirei coglie subito trasformando la caccia d’apertura nella scorribanda e stupro di tre ragazze da parte dei nobiluomini di corte, rispettabili padri di famiglia. Le scarpette rosse portate in scena alla fine dalla protagonista Caterina Sala arrivano, a ricordarci la perdurante, strisciante, oppressione femminile, sono naturale conseguenza di scrittura visiva dal segno forte, che a ogni gesto denuncia la violenza di questi uomini beffardi e disumani (quanti giovani orientali nel coro dell’Accademia della Scala!): peccato solo che la pazzia (Lucia addirittura inzuppata di sangue, col coltello in mano e il cadavere di Arturo sul tavolo) sia improntata a modalità “grandguignolesche”, anche nel canto tutt’altro che immateriale e trasognato. Vito Priante è un Ashton magistrale, belcantisticamente insinuante, Patrick Kabongo un Edgard corretto ma privo di fascino timbrico e tenuta di fiato. Favorito però dalla presenza di un direttore, Pierre Dumoussaud, sensibile e attento alle traiettorie vocali e da un’orchestra, gli Originali, che utilizza strumenti storici: di buone intenzioni (da sottoscrivere) e risultati di intonazione e compattezza da migliorare.