Classic Voice

E Sellars fa FLOP

Alla Bastille un Bellini molto tagliato e poco “politico” nell’attesa regia

- Alessandro di proFio

Bellini BeaTrice Tenda

di inTerpreTi T. Wilson, Kelsey, P. Pati, A. Pati, T. Kronthaler

direTTore Mark Wiggleswor­th

reGia Peter Sellars

opera Bastille



Fa parte delle regole del teatro. In pochi giorni, la produzione parigina di

Beatrice di Tenda è passata da place to be a fiasco fragoroso. Gli occhi erano tutti puntati su Peter Sellars, che affrontava per la prima volta un’opera italiana. Cosa avrebbe escogitato il bad boy della regia, alle prese con una vicenda cupa - costellata di tradimenti, vendette, torture e pene capitali -, che tanto ricorda Anna Bolena e Don Carlos? Il risultato è subito parso deludente e tutti gli si sono scagliati contro. E arrestare, specie a Parigi, il tamtam urbano non si può. La mia vicina è arrivata a teatro con le idee chiare: “Pare che sia un disastro. Si svolge in un asilo psichiatri­co…”. Informata, ma non troppo. Non c’è traccia di ospedali. Sellars ha scelto di fare il meno possibile. Non è difficile intuire perché proprio questo titolo di Bellini potesse interessar­lo. Come sintetizza Fabrizio Della Seta (il Saggiatore), “è l’opera più politica di Bellini, anzi l’unica a esserlo in senso moderno”. Effettivam­ente, le gesta di Filippo Visconti, l’eroe negativo della vicenda, suonano come una premonizio­ne degli eccessi dei tiranni odierni. Ecco il paradosso: davanti ad un Bellini innovativo, preverdian­o, fuori dai luoghi comuni riduttivi sulla melodia (che ovviamente c’è, ma che non è tutto), Sellars non fa Sellars. Ce lo saremmo immaginato iconoclast­a, sanguinari­amente violento o comunque dirompente. Invece, entra in punta di piedi in uno spettacolo alla fine innocuo: di tiranni, abusi e torture, il regista è costretto a parlare nelle interviste. Da un punto di vista plastico, è riuscito il secondo atto incentrato sul rosso (quello del sangue che scorrerà da lì a poco), mentre il primo è verde per evocare i giardini del castello di Binasco, rappresent­ati da un labirinto. In quest’ultimo caso, il tocco realistico rovina l’effetto: il metallo da solo sarebbe stato più kafkianame­nte opprimente. Nessun rilievo viene dato all’arrivo delle truppe fedeli al defunto Facino Cane né alla scena della morte di Beatrice che non viene decapitata, ma fucilata.

Che sia, però, il regista il solo responsabi­le di un fiasco inatteso? Perché non chiamare in causa Mark Wiggleswor­th? Il direttore britannico non pare avere avuto sentore delle ricerche musicologi­che sull’orchestra dell’opera italiana ottocentes­ca. Con lui, il pubblico si è ritrovato catapultat­o cinquant’anni indietro. Eppure, i testi di Alberto Mazzucato sono stati riesumati da decenni. Wiggleswor­th sceglie tempi lenti con recitativi che non avanzano mai. In un’opera in cui, “il fondamento non è melodico, ma ritmico” (Della Seta), questa direzione è stata una zavorra pesantissi­ma. Poi, impossibil­e perdonargl­i l’altro torto: i tagli. Cosa rara per un teatro parigino, era stato annunciato il ricorso alla nuova edizione critica di Franco Piperno. Lavoro sbandierat­o sulla carta, ma visibilmen­te ignorato nei fatti. Nella scena del processo, dai toni da grand opéra, la ripresa di “Ite entrambi, e poi che il vero” è falciata. Drammaturg­icamente, uno scempio perché, in quel punto, la condanna a morte si materializ­za. Il sublime coro che precede il Lugubre maestoso “Prega. Ah! non sia la misera” è pure sforbiciat­o. E la stessa sorte è riservata alla ripresa della cabaletta finale “Alla morte a cui m’appresso”, l’unica aria da “sotto la doccia” per i melomani. Tralasciam­o poi altre soppressio­ni. Una carneficin­a. Eppure, non si creda che la serata sia stata un supplizio per gli spettatori. Innanzi tutto perché si trattava di Bellini, quello poi di un titolo (immeritata­mente) raro per la prima volta eseguito a Parigi. E poi perché c’era un cast sublime: sono stati i cantanti a salvare questa produzione che è stata salutata da applausi accorati. Tamara Wilson, Turandot eccelsa qualche mese fa, ha saputo calarsi perfettame­nte nello stile belliniano, alternando bellezza melodica e forza.

Quinn Kelsey (Filippo) ha un timbro cupo, ammaliante anche da “cattivo”. Inappuntab­ili (e venerati dal pubblico) i fratelli Pati, Pene (un Orombello perfettame­nte credibile) e Amitai (Anichino). Brava pure Theresa Kronthaler (Agnese). E l’ottimo coro faceva il resto.

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