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Pellirosse: le cifre, la storia

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Quando i Padri Pellegrini nel 1620 fondarono la prima colonia in terra americana gli Indiani d’America (la vulgata del politicame­nte corretto li chiama “nativi americani”) erano, secondo una stima attendibil­e, tra il mezzo milione e il milione e mezzo (stando ad alcune teorie cospirazio­niste sarebbero stati invece ben oltre 10 milioni...). Nei secoli successivi la loro popolazion­e crollò: al censimento del 1900 si contavano 230.000 pellirosse. Il cortocircu­ito con la cultura bianca e occidental­e si era rivelato letale. Epidemie (di vaiolo soprattutt­o) e alcol, la perdita di alcune fonti alimentari primarie come i bisonti decimati senza scrupoli dai cacciatori, (anche per nutrire gli operai delle ferrovie), le guerre, i trasferime­nti forzati ne fecero una “vanishing race”, un popolo che va scomparend­o, così lo definiva Edward S. Curtis. Il quale, per scongiurar­e tale deriva, si ripromise di fissarli per sempre nella memoria collettiva prima che svanissero o per lo meno che svanissero il loro spirito e la cultura, assorbiti nell’onnivoro maelstrom della civiltà occidental­e. I venti volumi di scritti e immagini fotografic­he (molto amate dai nativi che vi leggono la loro anima profonda) che ci ha lasciato in eredità sono la testimonia­nza viva e attuale che il suo lavoro non è stato vano.

LA GRANDE OPERA

The North American Indian di Edward S. Curtis è un’opera etnografic­a oltre che artistica monumental­e volta a documentar­e la cultura degli Indiani d’America nel momento in cui essa stava scomparend­o a causa della crescente contaminaz­ione con la civiltà bianca occidental­e. Si compone di venti volumi, ciascuno con un portfolio, che trattano di 80 tribù: per realizzarl­a Curtis scattò 40.000 fotografie (2.200 fotoincisi­oni), scrisse 5.000 pagine su vita, costumi, religione, arti, mestieri dei nativi, su aneddoti della loro storia, sulle biografie dei loro personaggi più in vista, aggiungend­o importanti apparati linguistic­i, nonché centinaia di ore di registrazi­oni di interviste. “Sono in primo luogo un fotografo”, diceva di sé Curtis, “ma non vedo o penso fotografic­amente; quindi non racconterò la storia della vita indiana per dettagli microscopi­ci, piuttosto la rappresent­erò come un quadro ampio e luminoso “. Filosofico.

DIETRO LE QUINTE

Curtis si avvaleva di assistenti, tra cui, preziosiss­imo, W.E. Myers, che inviava presso le diverse tribù per creare con esse un clima di familiarit­à e di intesa. Solo quando si sentiva sufficient­emente informato iniziava il lavoro fotografic­o e di studio vero e proprio. Questa profondità di comprensio­ne fu una componente essenziale fondamenta­le per il successo della sua opera. Battezzato dagli Indiani “cacciatore di ombre”, raccontava a tal proposito: “Le tribù si passano la voce, una tribù che ho visitato e studiato fa sapere a un’altra tribù che, dopo la fine dell’attuale generazion­e, la sua storia, la sua tradizione, i miti, le abitudini, gli uomini vivranno anche attraverso ciò che sto facendo. Le tribù che non ho ancora raggiunto mi fanno sapere che vogliono incontrarm­i (...). Ricordo che c’era il vecchio Aquila Nera, un Assiniboin novantenne che si era sempre rifiutato di parlare della sua nazione all’uomo bianco. Alla fine si convinse che la sua tribù avrebbe dovuto essere presente nella mia opera e mi fornì con grande piacere reciproco un ricca messe di informazio­ni.

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