ILTRASLOCO DEL FARAONE
MINACCIATI DI VENIRE SOMMERSI DALLE ACQUE DEL NILO, TRA IL 1964 E IL 1968 I TEMPLI DI RAMSES II E NEFERTARI AD ABU SIMBEL FURONO FATTI A PEZZI E RIERETTI DAGLI ITALIANI PIÙ IN ALTO E ARRETRATI RISPETTO ALLA RIVA DEL LAGO. UN’OPERA TITANICA CHE ORA VIENE R
SINO AL 1813 dei Templi rupestri di Abu Simbel, che allora si chiamava Ebsambul, poco o nulla si sapeva. Li scoprì nel marzo di quell’anno l’esploratore svizzero convertito all’Islam Johann Ludwig Burckhardt, che nell’812 aveva ritrovato Petra. Li individuò sotto la sabbia soffiata per secoli dai venti del deserto. Per l’umanità di allora e per quella di oggi fu un regalo davvero monumentale.
SPoi fu un padovano ad approfondire la conoscenza dei templi di Ramses II, il maggiore per dimensioni, e di sua moglie Nefertari, il minore. Si chiamava Giovanni Battista Belzoni, esploratore, ingegnere, archeologo, un omone di 2 metri che a Londra per sbarcare il lunario faceva l’uomo forzuto in un circo. Il 1° agosto, mentre si aggirava intorno alle colossali raffigurazioni di Ramses II alte 20 metri che guarniscono la facciata del Tempio Grande, lo avviluppò la sabbia trascinandolo, come in un vortice, oltre la soglia: ciò che vide e intuì fu da togliere il fiato. Di lì in avanti fu tutto un fervore archeologico: si sottrassero alla sabbia le stanze e i santuari dell’uno e dell’altro manufatto, si ritrovarono statue, geroglifici e racconti pittografici, si sciolsero enigmi, altri si affacciarono. Insomma il fascino di Abu Simbel entrò nell’immaginario del viaggiatore: chi si recava in Egitto non poteva non fare una puntata in quel sito sul Nilo a 1.115 chilometri di strada dal Cairo. Ma nel 1960 tutto questo minacciò di sparire. All’Egitto per modernizzarsi urgeva energia elettrica e i consiglieri sovietici del presidente Nasser suggerirono di ampliare la diga esistente sul Nilo al fine di formare un immenso lago artificiale che avrebbe sommerso e cancellato i templi. Il mondo, culturale e no, reagì. Tanta iconoclastia non si poteva tollerare. L’Unesco coinvolse ben 113 Paesi per ottenere idee, uomini, finanziamenti indirizzati a salvare quei tesori. Tra le molte proposte si scelse quella svedese: tagliare i templi in blocchi, 7.764, numerati e repertati, smontarli e poi riassemblarli alzati e arretrati rispetto al bacino idroelettrico. Un’opera ciclopica, anzi faraonica, che durò dal 1964 al 1968. Un cantiere di 2.000 persone, l’Italia con il gruppo Impregilo ebbe il compito più delicato, sezionare e poi ricostruire teste, corpi, statue, pilastri e tutto ciò che gli antichi Egizi avevano scolpito. A prendersi cotanta responsabilità furono esperti cavatori di marmo italiani, di Carrara, Mazzano e Chiampo, che, come ricorda uno di loro citato nel magnifico volume Nubiana realizzzato da Salini-Impregilo, Luciano Paoli Carrarino, usavano “il Novello, una macchina dotata di una lama di 35 centimetri con denti diamantati”. Roba da orefici. E per ricreare l’esatta conformazione del sito originario fu necessario costruire una collina artificiale sostenuta da una struttura curvilinea di cemento armato. Fu grazie a questo sforzo immane del mondo intero che Ramses II e Nefertari sono rimasti tra noi in riva al Nilo, ma al sicuro dalle sue acque. E, 50 anni dopo quell’impresa, possiamo continuare a farci stregare dalla loro bellezza.