IL VENTO DENTRO
Va' Sentiero: camminare non stanca.
Viaggio della vita è anche prendersi due settimane per fare centinaia di chilometri «un passo dopo l’altro», e basta. Lo dimostriamo con le immagini di un gruppo di giovani che, appena sarà possibile, finirà di attraversare a piedi l’Italia, e con le parole di una conduttrice che a trentasei anni ha imparato a CAMMINARE DAVVERO. E non sarà mai più quella di prima
«E forse le mie scarpe sanno bene dove andare». Dice così la canzone vincitrice del Festival di Sanremo, certo lì è tutta una questione di amori finiti che restano nell’aria, ma concentriamoci sull’azione: quante volte ci è capitato di trovarci a casa senza pensare al tragitto, alle gambe che si muovono, ai piedi uno davanti all’altro?
Succede perché camminare è automatico, è come respirare, lo fai mentre fai altro, e infatti nessuno ricorda l’istante in cui ha iniziato a camminare, come se fosse un momento di passaggio senza rito, qualcosa di meccanico e dimenticabile.
Io ho imparato a camminare da bambina, come tutti, e poi di nuovo a 36 anni, quando ho deciso, con una buona dose di improvvisazione atletica e senza nessuna motivazione religiosa, di fare il Cammino di Santiago, partendo da León, con 10 kg di zaino in spalla, un passo dopo l’altro per 380 km.
Avevo uno spazio di due settimane miracolosamente libero, dopo aver rifiutato un lavoro che non mi avrebbe portato nulla di eccitante, e una notte di maggio ho deciso che quel tempo lo avrei impiegato bene, facendo qualcosa di nuovo e altrove, nel vero senso della parola. Nessuna scadenza, nessuna tabella di marcia, nessun appuntamento da rispettare, avrei avuto un ritmo e un tempo diversi, scanditi
solamente dalla mia forza e dal mio desiderio, e già solo l’idea mi sembrava un regalo inestimabile da fare a una che vive con il terrore di Google Calendar. Sarei stata sola, avrei parlato e ascoltato solo me, non c’era nessuno da accompagnare o aspettare, e nessuno mi avrebbe accompagnato o aspettato. Sapevo che sarebbe stato diverso e intenso, ma non ero spaventata.
I miei amici non capivano: non avevo mai manifestato velleità sportive, non avevo crisi sentimentali, mistiche o esistenziali da sanare, non cercavo me stessa, ero e sono tra le persone più equilibrate che conosca, con il martedì mattina dalla psicologa e lo shopping compulsivo per sfogare lo stress. Non volevo fare un viaggio per spostarmi da un punto all’altro, non volevo una vacanza. Io volevo solo camminare.
Ho capito quanto questo fosse vero soltanto lungo la strada, quando alla fatica dei chilometri, della pioggia, alla scomodità dei letti degli ostelli e all’aggressività delle cimici spagnole, pian piano si univano una forza gigantesca e una soddisfazione crescente: mi guardavo le gambe e mi sembravano improvvisamente la cosa più reale del mondo, in assoluto la più potente. Non serve altro per camminare, se non le gambe e la voglia di andare avanti, anzi mi correggo, l’istinto: è vero che resta un’azione meccanica ma è altrettanto vero che farci caso è improvvisamente lo strumento con cui scopri cosa sei in grado di fare. Cammini come tutti, e cammini come nessuno. Cammini soprattutto come non
«Facendo qualcosa di nuovo e altrove: nessuna scadenza, nessuna tabella di marcia, nessun appuntamento da rispettare»
«Mi guardavo le gambe e mi sembravano improvvisamente la cosa più reale del mondo, in assoluto la più potente»
credevi di poter fare, affidandoti solo a te stesso, con aspettative di risultato grandi come un passo, e poi un altro e un altro ancora. E hai voglia di farlo quel passo, vuoi vedere cosa succede se superi la collina, e ogni tanto ti guardi indietro per vedere quanta strada hai fatto, a volte ti fermi per un’ora a fissare una roccia qualunque, e a volte metti il turbo e macini distanze impressionanti, a volte sei in silenzio per ore e altre chiacchieri in lingue mai conosciute con stranieri da tutto il mondo.
Le persone sono state l’elemento fondante, oltre al camminare puro, della mia strada per Santiago.
Il Cammino è una livella: non ce ne frega nulla di quanti soldi, vestiti, amanti e nemici tu abbia nella tua vita normale, qua puzzi e sei vestito male come gli altri, hai le vesciche sotto i piedi e la notte russi in una camerata di cinquanta persone, e non c’è nulla di più liberatorio. Soprattutto perché, bypassato il problema della prima impressione, si può veramente chiedere chi sei e cosa fai, cosa ti ha portato a camminare, qual è la tua storia, come eri da bambino, cosa vuoi essere da grande, e assurdo lo so, tenete– vi forte ascoltare davvero la risposta, senza telefoni – che suonano, senza notifiche di Instagram.
Ho scambiato segreti con tedeschi in braghe corte, ho pianto con un australiano di 50 anni che mi raccontava che il suo cammino era il modo di salutare suo padre, originario di Santiago, al quale non aveva detto l’ultimo ciao, ho descritto nei minimi dettagli il verde della Galizia a Domenico, un catanese di 70 anni cieco, che aveva già fatto altri cammini con il suo inseparabile Vittorio, stessa età, stessa cazzimma. E ho eliminato le chiacchiere di circostanza e raggiunto un livello di verità che spero con tutta me stessa di saper mantenere nella mia vita quotidiana, nel post pellegrinaggio. In più ho sentito forte il tifo di chi mi aspettava a casa, di chi monitorava i miei sforzi da lontano convinto (a volte più di me) che ce l’avrei fatta, dividendo a metà piccoli
successi e il traguardo finale, la piazza con la cattedrale, la fine della fatica e quel senso di vuoto di chi arriva alla meta: e ora? Non si cammina più?
Dicono tutti che il Cammino ti cambi la vita, io credo che in un certo qual modo sia vero. Io sono partita pensando che sarei tornata a casa in aereo dopo due giorni con la tendinite e le pive nel sacco. Invece superati i primi venti chilometri pensavo di poter fare qualunque cosa, e lo penso tuttora: un passo dopo l’altro, con il mio tempo e il mio ritmo, io posso arrivare ovunque. E mi godo più la strada dell’arrivo, gioco con la mia sindrome dell’impostore (Quella vocina malefica che riecheggia dentro di voi e vi dice «ma dove pensi di andare? Prima o poi tutti scopriranno che sei un bluff e che non sei così speciale come fingi di essere», proprio lei, quella stronza), conto le false convinzioni che se ne vanno, le lascio dietro di me, mentre salgo in cima al Monte Cebreiro, felice come mai prima.
La verità è che nessuno se ne va mai dal Cammino, ed è come dicono: pellegrino una volta, pellegrino per sempre. Ti resta un po’ appiccicato al corpo, ai muscoli, in quella memoria fisica che se stai troppo ferma alla scrivania poi ti fa formicolare le gambe come se le stessi «sprecando», ti regala uno strumento nuovo che è il movimento, la spinta, la resistenza alla stanchezza. L’altra eredità del Cammino per me è che voglio fare solo quello che mi corrisponde e che mi rende felice, non voglio perdere tempo ed energie, voglio occuparmi di quello che desidero e di cui ho bisogno, voglio spazio e vita intorno, come in quelle due settimane in cui ho avuto più cielo che soffitti sopra di me.
L’ho scritto e detto tante volte, e a distanza di mesi è ancora l’immagine che descrive meglio il mio Cammino: è come se mi avessero aperto il petto e ci avessero fatto passare il vento dentro.
All’arrivo ero più grande, più solida, più felice, mi conoscevo meglio, vedevo cose di me che non mi ero concessa per anni, avevo frecce nuove a indicarmi le mille strade da percorrere e forse, davvero, per la prima volta nella vita, sapevo camminare.
«Voglio spazio e vita intorno, come in quelle due settimane in cui ho avuto più cieli che soffitti sopra di me»