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Un’isola, mille musiche, una leggenda. In GIAMAICA guidati solo dal reggae, il Patrimonio dell’Umanità della riscossa
Frenchman’s Cove Beach, considerata una delle baie più belle del mondo.
Su una stradina per Falmouth, a nord dell’isola, alcuni manichini ciondolano su lunghi pali di bambù: sembrano quasi degli impiccati abbandonati lì dalla violenza della Storia. Sarà un rituale obeah, culto ancestrale dell’Africa equatoriale tuttora vivo in Giamaica e parte dei Caraibi? Curatissimi, con abiti colorati e occhiali scuri, sono proprio strani addobbati con tutti quei dischi in vinile, uno porta anche a tracolla una chitarra di cartone dipinto… La cura dei dettagli è a dir poco fantasiosa, chi ha messo lì queste figure doveva avere un motivo serio per farlo: sarà stato per vietare il passaggio? Per respingere qualche spirito malefico? A svelarci l’arcano è un contadino sulla sua bici sgangherata: i personaggi sono qui solo per spaventare gli uccelli. Da queste parti, anche gli spaventapasseri sono musicisti! Questa immagine potrebbe racchiudere tutta l’atmosfera così speciale della Giamaica e della sua storia tormentata.
Qui ogni cosa riconduce alla musica. A iniziare dai corridoi dell’aeroporto di Kingston, dove le celebrità raffigurate non sono politici o scrittori ma Bob Marley, Peter Tosh e gli altri esponenti del reggae che hanno fatto conoscere al mondo intero il paradiso caraibico. Da allora, la Giamaica ha incentrato la sua offerta turistica sull’onnipresenza della musica che avvolge tutta l’isola in un’atmosfera unica. S’intuisce persino nell’andatura elegante e dinoccolata dei discendenti della schiavitù, la grande maggioranza della popolazione. Da queste parti nessuno si è stupito quando il reggae è diventato Patrimonio culturale dell’Unesco, nel 2018. Tutti suonano, anche se nessuno si dice musicista. Un esempio? Cecile Watt è assistente manager della Kanopi House, un bel resort nascosto nella foresta dell’imperdibile Blue Lagoon, vicino a Port Antonio. Tra una chiacchiera e l’altra ci mostra un video dove suona le percussioni per una cantante davvero brillante. Rimaniamo basiti: «Somiglia tanto a Esperanza Spalding, sai, la cantante invitata da Obama alla Casa Bianca…». «Infatti, è proprio lei», risponde Cecile Watt. Così stanno le cose in Giamaica, nessuno si stupisce se gli capita di improvvisare quattro note insieme a una star internazionale.
Chris Blackwell, 83 anni, è il fondatore dell’etichetta Island Records ed è colui che ha lanciato Bob Marley sulla scena internazionale: è probabilmente una delle persone più adatte in assoluto per spiegare questa peculiarità giamaicana. Da parte di madre proviene da una famiglia di coltivatori di canna da zucchero, proprietari della Appleton,
noto marchio di rum le cui distillerie si possono oggi visitare. Quando Chris Blackwell sbarca sull’isola dopo aver abbandonato gli studi a Londra, scopre la Giamaica dei primi anni ’50, dove già vivono diverse celebrità come l’autore di James Bond, Ian Fleming, o il drammaturgo Noël Coward.
Vede allora sfilare il gotha di Hollywood in villeggiatura nel Nord dell’isola, dove le star si godono il comfort del neonato Jamaica Inn e la sua meravigliosa spiaggia bianca. Oggi l’albergo è stato rimodernato, ma a ricordare la gloriosa epoca restano sulle pareti del salone le foto di Marilyn Monroe e Arthur Miller, di Ian Fleming, Errol Flynn o Katharine Hepburn.
Chris Blackwell ora divide il suo tempo tra Pantrepant, una splendida fattoria storica alle porte del Cockpit Country (dove pochi turisti si avventurano nonostante la bellezza dei paesaggi) e il suo hotel, il GoldenEye, con la residenza splendidamente ristrutturata del creatore di James Bond. Seduto di fronte al mare, tra le colonne piene di copertine di dischi della terrazza del Bizot, uno dei bar, Chris ci riporta indietro nel tempo: «C’è un’epoca d’oro della musica in Giamaica, quella in cui Bob Marley, Toots and the Maytals e Peter Tosh inventano il reggae, alla fine degli anni ’60. Una simile concentrazione di talenti è cosa rara nella storia della musica». E aggiunge: «Non riesco a dissociare la musica dalla storia dell’isola, probabilmente sin da quando Port Royal era la città crocevia dei pirati e corsari britannici che attaccavano le flotte francesi e spagnole». Port Royal è stata distrutta
dal terremoto del 1692, ma «la Giamaica è sempre rimasta un crocevia e si è arricchita dalla mescolanza dei popoli, dall’influenza britannica prima a quella americana poi, e di tutte le isole intorno. L’epoca d’oro del reggae è l’eredità di questo passato», afferma Blackwell. Alla fine degli anni ’40 è invece il mento a impazzare oltremare. Spesso confuso con il calypso di Trinidad, è la musica che sta ai contadini giamaicani come il blues nel Sud degli Stati Uniti. Harry Belafonte, americano di origine giamaicana, ne è l’interprete più famoso. «In quel periodo, la connessione musicale con gli Stati Uniti è diretta», prosegue Chris Blackwell. «Il jazz è arrivato con i soldati americani durante la Seconda guerra mondiale, e poi c’è stato il soul che si sentiva dalle radio di Miami».
Anche vicino a Port Antonio la musica si è installata sulle spiagge da sogno. Lo conferma Steve Beaver, fondatore insieme a Jon Baker dello studio Geejam. A capo della consolle sulla quale molte star internazionali registrano, troviamo un giovane giamaicano di 19 anni. Steve guida i suoi ospiti negli studi tra un aneddoto e l’altro. «Oggi il Geejam è un boutique-hotel, ma in realtà è lo studio all’origine di tutto. È proprio perché sono arrivati musicisti da ogni dove che abbiamo poi creato una struttura ricettiva adeguata, non il contrario. Non saprei dirvi perché la Giamaica si è imposta così sulla scena mondiale. Vengo qui da ormai cinquant’anni e ancora non ho trovato risposta a questa incredibile congiunzione astrale». Per chi non ama il reggae, venire in Giamaica è paradossale quanto andare all’Avana per chi odia la salsa o il fumo dei sigari. «Oggi purtroppo c’è meno musica live per strada», rimpiange Chris Blackwell, «ma non mancano certo le occasioni per immergersi nella musica, come i due grandi festival, il Rebel Salute e il Reggae Sumfest».
Il reggae è Patrimonio Unesco per il suo ritmo sincopato, ma anche per i suoi valori profondi,