LA CITTÀ DENTRO IL MARE
Oltre 100 spiagge, piscine oceaniche come il cortile di casa, foresta che tracima. Come si vive a SYDNEY, il porto naturale più grande del mondo?
Non ci sono pozzanghere a Sydney. È appena finito un apocalittico temporale estivo, gli eucalipti e il vento, le finestre che sembravano oblò nella tempesta. Poi finisce, esci, è asciutto. È una città fatta di crepe e fessure, con la roccia che si inserisce tra le case, le strade, intelaiata nell’arenaria gialla porosa e soft che è un gigantesco sistema di filtraggio. L’acqua sparisce subito e resta nel caldo l’odore delle foglie macerate dalla pioggia.
La prima volta che sono atterrata qui, fine anni ’90, non mi aveva fatto una grande impressydney sione. Mi immaginavo un mondo nuovo dall’impronta leggera, ecologico, energia solare, digitalizzazione avanzata, già futuro. Ho trovato polvere del deserto, intrichi di fili elettrici appesi per aria nelle strade, buie casette vittoriane, cartelloni che invitavano a visitare il monumento al calamaro gigante. Poi sono arrivata sull’oceano, ed è stato amore per sempre.
Ho capito che qui potevo vivere andandomi a fare una nuotata appena sveglia, prima di mettermi a lavorare, prima di qualsiasi cosa, potevo uscire dall’acqua, asciugarmi veloce e girare in havaianas, e tutto questo abitando in piena città, la spiaggia e la metropoli.
Esistono altre metropoli oceaniche, ma Sydney ha il porto naturale più grande del mondo che si allunga per 70 chilometri tra i fiordi, «a forma di una gigantesca foglia di quercia», come diceva Mark Twain, e qui «dell’inverno esiste solo il nome» (sempre Twain). Ci sono oltre cento spiagge, in città. Quelle oceaniche dove i surfers aspettano l’onda sulla line up (Bronte, Coogee, Tamarama, Manly, la mitica Bondi Beach). Ci sono le spiaggette acquattate nelle piccole baie dell’Harbour: la sabbia bianchissima di Shark Beach; quella dorata di Camp Cove con là in fondo i grattacieli della City e dall’altra parte le scogliere dove si spalanca il Pacifico; Parsley Bay, incuneata in un’insenatura lunga e stretta con il prato che digrada nell’acqua e se il mare è così smeraldo è perché alzi gli occhi e sopra c’è la foresta.
Il porto di Sydney è circondato da tre grandi parchi nazionali e la foresta tracima tra le case, nelle biblioteche, nei musei, ovunque; è raro trovare un marciapiede con l’asfalto in piano per via delle radici dei maestosi fichi Port Jackson o delle giacarande. Volendo, si può camminare per spiagge per giorni interi, perché sono un’infrastruttura urbana, collegate tra loro da una trama di passeggiate tra scogliere, ville moderniste e vecchie mansion in stile Federation, sentieri affacciati sull’acqua che all’improvviso virano nell’interno dentro il bush, e ti ritrovi su un ponte di legno sospeso tra
Sopra, lo skyline di Sydney e Hide Park. Il «giardino pubblico» è il più antico d'Australia. Grande 16,2 ettari, forma un rettangolo (un po’ irregolare) e ospita migliaia di alberi. A destra, York Street con la Sydney Town Hall e il Queen Victoria Building (QVB), progettato alla fine dell’Ottocento dall’architetto George McRae.
«Il porto di Sydney ha la forma di una gigantesca foglia di quercia fatta di acqua blu» mark twain
felci pluviali giganti. Puoi prendere la macchina e proseguire verso le Northern Beaches, Avalon, Freshwater, dove è nato il surf australiano, Bilgola, Dee Why, fino a Palm Beach dove (dal 1988) girano ancora Home and Away. Oppure a Collins Flat Beach, dove se si è fortunati si incontrano piccoli pinguini, sennò ci si «accontenta» di veder passare le balene.
Da un paio di settimane io le sto girando tutte, armata di Places We Swim Sydney, la guida definitiva per «water-loving people», appena pubblicata. All’estremità di ogni spiaggia c’è quasi sempre una ocean pool. Una piscina di acqua salata, spesso olimpionica, libera e gratuita, quasi sempre scavata nella roccia, una piscina-mare dove nuoti con le onde che entrano dentro in vasca. È qui che, al riparo dalla forza delle correnti e dagli squali, generazioni di australiani hanno imparato a nuotare come dèi, con una grazia acquatica che non ho mai visto altrove. A Bondi Beach, nella leggendaria piscina dell’Icebergs Club, incontro Sally Aitken, regista del documentario The Pool, che è quasi il ritratto di una nazione: «Le piscine e le spiagge», mi spiega, «sono il nostro cortile di casa, la nostra piazza, è qui che ci spogliamo di tutto e ci ritroviamo».
Eppure da Sydney tanti hanno cominciato ad andarsene. Costa troppo, il traffico è orrendo, ogni anno nuovi giganteschi complessi di torri come il futuro Central Place Sydney si mangiano palazzi storici e un’altra fetta di giardini sul waterfront. C’è chi dice che sta perdendo l’anima, per esempio Elizabeth Farrelly, columnist del Sydney Morning Herald, che ha comprato una farm, si è trasferita più a sud e ha appena scritto un libro che si intitola Killing Sydney. Certo, la città non è più così laid back, così rilassata, com’era prima dei Giochi Olimpici del 2000, soffre di «development fatigue». Ha 5,3 milioni di abitanti e prima della pandemia cresceva di quasi 90 mila all’anno, è diventata una delle maggiori destinazioni universitarie internazionali, la Greater Sydney è una megalopoli smisurata