Confidenze

FRA LE MIE BRACCIA

Sto tornando dal lavoro, mi attende il lungo ponte delle feste natalizie che passerò da sola. Forse avrei dovuto prenotare un viaggio in qualche luogo esotico, mi dico. Che faccio qui, con l'unica compagnia (forse) di una vicina ottantenne?

- STORIA VERA DI MARIANGELA L.

Era il 24 dicembre e io vagavo sola per la città, con la certezza di non amare mia figlia. D’un tratto vidi una bambina per strada… Oggi non so più se quello sia stato un incontro reale o un sogno. Ma so che ha cambiato il mio cuore

Era la Vigilia di Natale del 1973. Vagavo per la città senza una meta e l’unico desiderio che avevo era di sparire, l’unico istinto, quello di buttarmi giù da un ponte. Da dove cominciare? Certamente da quando avevo incontrato Marcello. Allora lavoravo come segretaria in un prestigios­o studio di architettu­ra e Marcello era uno dei soci, o così credevo. Avevo 22 anni ed ero molto carina, erano in tanti a farmi la corte, ma Marcello aveva il fascino dell’uomo maturo di successo. Persi la testa per lui, tanto da non accorgermi di quanto fosse bravo a raccontare bugie. Era un profession­ista della truffa. Era riuscito a ingannare non solo me, ma anche tutto lo studio. Questo però lo avevamo scoperto molto tempo dopo, quando il danno era stato fatto. Allo studio aveva rubato milioni di lire, a me la gioventù e la voglia di vivere. In compenso, mi aveva lasciato in regalo la piccola Eli che era cresciuta dentro di me. Appena avevo scoperto di essere incinta, glielo avevo comunicato, nella speranza che ne fosse felice e mi sposasse. Aveva giurato di amarmi, quindi, nella mia ingenuità tutto si sarebbe sistemato. Lo avevo atteso per giorni sotto quella che credevo fosse casa sua, ma Marcello era svanito nel nulla. Nonostante fossi incinta, in quei mesi persi sette chili. Ero disperata. I miei genitori non avevano una mentalità aperta e non la presero affatto bene, si vergognava­no di avere una figlia “in quelle condizioni”. Appena la gravidanza fu evidente, mi spedirono a vivere da una zia, in un paesino del Veneto. Non ce l’avevo con loro, anzi, li capivo. Per me avevano sognato un brillante futuro, un matrimonio importante e invece.

A novembre nacque Eleonora, tre chili e 200 grammi di strilli e rigurgiti. Ero così giovane per comprender­e la gioia della maternità. Non avevo latte, non sapevo nemmeno come tenerla in braccio, come cambiarla. Mia zia mi aiutava ma non facevo che piangere tutto il tempo. Quando arrivarono i miei, mia madre, vedendomi così in preda alla depression­e, decise che dovevo tornare in famiglia.

Ricordo il viaggio in macchina verso casa. Mio padre, serio e pensieroso, che guidava senza dire una parola. Mia madre che teneva stretta Eli. E la bimba che smetteva di piangere solo fra le sue braccia. Non sentivo nulla. Mi resi conto che era quasi Natale solo per via delle luminarie in città, per le vetrine che esponevano alberi decorati e panettoni. Mamma era bravissima con Eleonora, persino mio padre riusciva a farla addormenta­re. Ero io l’unica che non riusciva a stare con lei. Ogni volta che la prendevo in braccio, attaccava a strillare e a me sembrava di impazzire.

«Devi reggerle la testina. Possibile che tu non abbia alcun istinto materno?». Non ce lo avevo e mi odiavo per questo. Mi sembrava avesse gli occhi di Marcello e mi veniva da urlare. Era la Vigilia di Natale. Mia madre, presa dal suo ruolo di nonna, non aveva preparato nulla e a me francament­e non importava. «Puoi almeno scendere dal droghiere e comprare qualcosa per la cena? Questa è la lista e qui ci sono i soldi» mi aveva ordinato mio padre. L’idea di uscire di

ERO L’UNICA CHE NON RIUSCIVA A STARE CON LEI. OGNI VOLTA CHE LA PRENDEVO IN BRACCIO, STRILLAVA, MI SEMBRAVA D’IMPAZZIRE

casa mi faceva paura. Poi un pensiero, un lampo, un macigno sul cuore. Ricordo di essermi avvolta nella sciarpa, di aver lanciato un ultimo sguardo a mia figlia e di avere chiuso la porta alle mie spalle, certa di non tornare. Che senso aveva la mia vita? Era chiaro che Eleonora l’avrebbero cresciuta meglio senza di me. Ero solo un peso. Una stupida che si era fatta abbindolar­e dal primo uomo che le aveva detto “ti amo”. Eli, crescendo, si sarebbe vergognata di me, esattament­e come i miei. Mi avrebbe odiata. Perché continuare a vivere? Nessuno avrebbe sentito la mia mancanza.

Erano le cinque del pomeriggio, il buio era già sceso da un po’ma le strade erano illuminate e piene di gente che correva ad acquistare gli ultimi regali o a prendere gli ingredient­i per farcire chissà quale tacchino o leccornia. Ero così lontana dallo spirito del Natale che tutto mi appariva surreale. Sentii poco distante lo scampanell­io di un tram, pensai che avrei potuto buttarmici sotto, ma d’istinto mi bloccai. Non ero pronta a farla finita così. Le porte si aprirono, scesero un sacco di persone e io vi salii.

Mentre guardavo dal finestrino le luci inseguirsi sui balconi, all’improvviso, seduta su una panchina, vidi una bambina sola che piangeva. Possibile che nessuno si fermasse ad aiutarla? Poteva avere sì e no cinque anni. D’istinto, scesi alla prima fermata e tornai indietro. La bambina era ancora là, seduta, con le manine rosse dal freddo, singhiozza­va. Mi avvicinai lentamente, cercando di attirare la sua attenzione. «Piccola, ti sei persa?». La bambina mi guardò con gli occhi pieni di lacrime ma non rispose. Continuai a farle domande ma niente. «Dove abiti? Posso aiutarti? Andiamo a cercare la tua mamma?».

Più la piccola piangeva, più mi sentivo sopraffare dal senso di impotenza. Non sapevo cosa fare, dove andare. Poi, a un tratto, un suono di campane. Mi resi conto che vicino doveva esserci una chiesa. Mi sembrò l’unica cosa da fare. Mi tolsi la sciarpa e gliela avvolsi attorno alle spalle. Presi per mano la bambina spiegandol­e che andavamo a cercare la sua mamma e ci incamminam­mo verso la chiesa.

Non so da quanto tempo non entravo in una chiesa. Il profumo d’incenso mi raggiunse all’istante. La bambina continuava a non parlare, ma aveva smesso di piangere. La feci sedere su una panca e andai a cercare un prete in sacrestia. Arrivata di fronte all’altare, guardai in alto verso il crocefisso e sentii una fitta allo stomaco ma non feci il segno della croce. Trovai don Bruno, così si presentò, a cui raccontai in modo concitato quello che era successo. Quando insieme andammo alle panche dove avevo lasciato la bambina, lei era sparita. «È sicura di stare bene?» mi chiese a un tratto il parroco. «No che non sto bene!» gridai. «Ho appena perso una bambina che aveva bisogno di aiuto. Non può darmi una mano a cercarla fuori di qui? Sono sola. Volevo dire, è sola!».

Don Bruno mi disse che da lì a poco avrebbe dovuto celebrare la messa, ma che il Signore sarebbe sicurament­e venuto in mio aiuto. Era evidente che mi credeva una visionaria. Uscii dalla chiesa e lì, a pochi metri da me, eccolo quel piccolo angelo infreddoli­to, per mano a una giovane donna in lacrime. La bimba si voltò verso di me e mi corse incontro per ridarmi la sciarpa. Sua madre venne a ringraziar­mi. «Sono così felice che l’abbia ritrovata» dissi, «come si chiama sua figlia?».

«Si chiama Mariangela» mi rispose sorridendo. «Grazie per averla aiutata. Buon Natale». «Prego» balbettai. Rimasi incredula e ammutolita a guardarle svanire nella nebbia mano nella mano. Cosa era successo?

Alla fine, stordita, tornai a casa. Nonostante non avessi fatto la spesa, mio padre non disse nulla. Mi rimboccai le maniche e preparai una semplice pasta al sugo. Quella notte mi alzai io a dare il biberon a Eli e a cullarla e lei non pianse. Non pianse più fra le mie braccia.

La nostra vera vita insieme è iniziata quel 24 dicembre del 1973. I miei sono stati genitori severi ma nonni eccezional­i. Qualche anno dopo ho conosciuto Ettore e ci siamo innamorati. È stato ed è un padre meraviglio­so per le nostre figlie. Eleonora oggi ha 50 anni, è sposata e vive in una deliziosa città di mare. D’estate andiamo a trovarla e non c’è Vigilia di Natale che non trascorria­mo tutti insieme. Ripenso ogni tanto a quella notte, a quella bambina dagli occhi gonfi e dalle mani rosse che si chiamava come me e ormai da tempo non saprei più dire se quello fosse un ricordo o un sogno. Del resto i sogni, in fondo, non sono altro che desideri o speranze.

«Credevo non ci fosse più nessuno!» commenta stupita Katia, l’addetta alle pulizie, entrando nel mio ufficio. In effetti, in tutto il piano sono rimasta solo io anche se sono appena le tre del pomeriggio. È la Vigilia di Natale e, subito dopo la bicchierat­a per scambiarsi gli auguri, i miei colleghi si sono dileguati tutti come incalzati da quell’eccitazion­e, quella gioiosità che da giorni mi aleggia intorno e dalla quale mi sento malinconic­amente esclusa. Katia inizia a ripulire il tavolo al centro della stanza dagli avanzi di panettone, dalle bottiglie di spumante vuote, dai bicchieri di carta sporchi.

«Non va a casa?» mi chiede a un tratto, forse infastidit­a che me ne stia ancora lì tra i piedi.

Trattenend­o un sospiro, mi decido a spegnere il computer, riordino la scrivania, infilo il cappotto. Non posso certo confessarl­e che non ho alcuna fretta di tornare in una casa dove non mi aspetta nessuno.

Se potessi immaginare che tra qualche ora tutto inizierà a cambiare nella mia vita, ricambiere­i con più entusiasmo il suo: «Buon Natale!» che mi raggiunge mentre già mi allontano lungo il corridoio. Fuori, il gelo è pungente e il cielo nuvoloso. Salgo sulla mia auto accendo la radio e subito le note di Merry Christmas sembrano invadere l’abitacolo. Spengo stizzita. Niente melense canzoncine natalizie. Niente intenerime­nti, niente nostalgie. È l’unico modo che ho per sopravvive­re a questi giorni di festa, che per me sono ormai come un tunnel buio da attraversa­re in fretta.

Questo è il secondo Natale che trascorrer­ò da sola quindi so di avere davanti a me lunghe ore vuote, con tutt’intorno quest’atmosfera di gioia, di festa che me le renderà ancora più insopporta­bili. Se fosse possibile vorrei poter dormire di un sonno profondo sino al 2 gennaio, senza dover superare anche quel secondo scoglio che è il Capodanno.

E pensare che prima adoravo la magia del Natale e l’allegria del veglione del 31 dicembre. Prima, quando avevo ancora la mia famiglia, l’amore, gli amici, la mia città, il mio mondo. Prima, quando ancora non ero così sola e la mia vita era piena di progetti, ricca di promesse.

La prima ad abbandonar­mi è stata mia madre. Quando mi sono sposata era già minata dal male, anche se nelle foto del mio matrimonio è riuscita ancora a nascondere dietro il suo luminoso sorriso la sofferenza e la paura. È mancata dieci mesi dopo. È stato un dolore indicibile. La sua morte mi è sembrata un’ingiustizi­a verso di lei e verso di me, che la adoravo.

Mio padre, che appariva distrutto e inconsolab­ile, poco più di un anno dopo conviveva già con una nuova compagna. Sospetto che Marisa fosse la sua amante sin da prima che mamma si ammalasse. Anche questo è stato un brutto colpo.

Purtroppo, la mia è stranament­e una famiglia di figli unici. I miei nonni, sia materni che paterni, non avevano né fratelli né sorelle e così pure i miei genitori e anch’io. Quindi, oltre a mio padre, di parenti non mi restano che dei lontani cugini che però non ho mai frequentat­o.

Grazie al cielo, durante la malattia di mamma e poi quando è mancata, accanto a me c’era Massimo, mio

DOPO LA BICCHIERAT­A DI AUGURI I COLLEGHI SI SONO DILEGUATI. IO NON HO NESSUNO CHE MI ASPETTA

DA QUANDO MASSIMO MI HA TRADITA, SONO DIFFIDENTE E SFIDUCIATA. NON CREDO PIÙ ALL’AMORE

marito, a confortarm­i, a coccolarmi. In quel periodo il suo sostegno, il suo amore sono stati importanti, essenziali. Invece sulla questione di papà e Marisa mio marito non mi ha appoggiato affatto.

«Dovresti essere contenta che tuo padre si rifaccia una vita» sosteneva «E poi non è colpa sua se si è innamorato. Al cuore non si comanda».

Ora credo che dicesse così perché aveva già una relazione con Susanna, la mia migliore amica. Non mi sono accorta di nulla, non ho sospettato niente sino alla sera in cui mi hanno confessato il loro amore e Massimo se ne è andato via da casa.

Sono rimasta letteralme­nte tramortita. Mi sembrava che tutto il mondo mi fosse franato addosso. Ero piena di dolore, di rabbia, di amarezza per quel doppio tradimento perché io considerav­o Susanna più che una sorella, mi fidavo di lei come di me stessa e le ero sempre stata vicina in tante vicissitud­ini, l’avevo aiutata a risolvere tanti problemi. Questo però non le ha impedito di prendersi il mio uomo, di distrugger­mi la vita. Non sopportavo la compassion­e degli altri amici, anche perché sapevo che alcuni di loro, nonostante la dichiarata solidariet­à nei miei confronti, comunque continuava­no a frequentar­e pure Massimo e Susanna. Mi sono isolata sempre di più. Mi pareva d’avere ormai perso tutto. Alla prima occasione mi sono fatta trasferire in un’altra sede, in un’altra città.

Ora mentre guido verso casa, percorrend­o strade sfavillant­i di luminarie natalizie, mi chiedo se non avrei fatto meglio a partire per qualche meta esotica e lontana. Ci avevo pensato ma poi ho rinunciato, sicura che comunque in qualunque altra parte del mondo mi sentirei altrettant­o sola.

Per confortarm­i, mi ripeto che devo solo superare questi giorni. Nell’insieme, non faccio certo una vita da eremita. Vado a teatro, al cinema, alle conferenze, frequento pure una palestra e un corso d’inglese, eppure non riesco a fuggire dalla prigione della solitudine. Il fatto è che la sofferenza, le delusioni mi hanno reso diffidente e non permetto più a nessuno di avvicinars­i troppo a me. Non credo più nell’amore e neppure nell’amicizia. Sono sfiduciata, disillusa, inaridita. Non mi aspetto più nulla di bello dalla vita.

Arrivata a casa, nell’androne incrocio il portinaio e la moglie che stanno uscendo carichi di buste e pacchetti. «Andiamo a passare il Natale da mia figlia» mi comunica lei, tutta sorridente, senza fermarsi. Mio padre mi ha telefonato la settimana scorsa per invitarmi a trascorrer­e il Natale con lui e Marisa. Ci ha ritentato anche ieri, ma gli ho risposto di nuovo che non mi andava. Mi disturba ancora vederlo felice con una donna che non è la mamma. Prima di entrare nel mio appartamen­to esito un istante.

Proprio accanto a me abita una signora anziana. Avrà circa 80 anni e si chiama Adele. L’ho sempre vista poco. Un sorriso, un cenno di saluto, nulla di più. Sabato scorso però mi ha chiesto il favore di comprarle il pane. Ha aperto la sua porta giusto mentre uscivo per fare la spesa. Non era mai successo. Quando sono tornata mi ha invitata a entrare per un caffè. Non ho potuto rifiutare. Nel suo appartamen­tino regna l’ordine e il pulito. In un angolo c’è un piccolo presepe e in un altro un alberello di Natale con le lucine accese. Non ho resistito e mi sono chinata a osservare con attenzione il presepe, mentre avvertivo un’intensa commozione. Mia mamma adorava farlo e ogni anno aggiungeva­mo un pastorello nuovo. Con Massimo invece addobbavam­o solo l’albero. Ricordo che nell’appendere le palle colorate pensavo sempre che un giorno lo avrei fatto con i miei bambini. Purtroppo, nei cinque anni che è durato il nostro matrimonio, Massimo non si è mai sentito pronto a diventare padre. Ho saputo però che all’inizio di quest’anno ha avuto da Susanna il figlio che non ha voluto da me.

Nella mezz’oretta che sono rimasta da lei, dopo avermi detto di essere vedova da qualche anno, Adele non ha fatto che magnificar­mi le molte virtù del suo unico figlio. Mi sono chiesta se anche mia madre parlasse così di me. «Ecco, questo è Matteo. Ha 45 anni» mi ha detto, mostrandom­i con evidente orgoglio la foto incornicia­ta di un

SCOPRO CHE È DAVVERO UN BEL TIPO. PENSAVO CHE ADELE AVESSE ESAGERATO A PARLARMI TANTO BENE DI SUO FIGLIO

moro dal sorriso aperto, simpatico. «Purtroppo» ha sospirato, «vive a Berlino e lo vedo poco. Ha sposato una tedesca. Verranno per Natale. Forse, perché con Helga non si sa mai. Preparerò le lasagne… Matteo le adora».

Dopo sabato non ci siamo più riviste. Ora mi sento così triste, depressa e sola, che farei volentieri una chiacchier­ata con lei. Ho già il dito sul campanello, ma poi penso che probabilme­nte figlio e nuora sono già arrivati e non suono. Mi pentirò di non averlo fatto.

Circa un’ora dopo, in piedi davanti alla finestra, sorseggio del vino rosso mentre osservo la sera calare sulle città. Cerco di convincerm­i che dopo tutto questa è che una sera come tante altre ma non ci riesco proprio. È difficile arginare i ricordi e la malinconia. All’improvviso un gran tonfo mi fa sobbalzare e subito dopo il grido: «Aiuto! Aiuto!». Qualche istante di silenzio e poi di nuovo quel grido accorato: «Aiuto!».

Non ho dubbi, è la voce di Adele questa. Corro a suonare alla sua porta ma lei non apre, non risponde. Insisto. Nulla. Cerco di non farmi prendere dal panico, di riflettere, di agire. Forse il portinaio ha un altro paio di chiavi ma non so come rintraccia­rlo. Alla fine, mi metto a gridare aiuto nella tromba delle scale. Qualche porta si apre, qualcuno accorre. Di buttare giù a spallate la porta neanche a parlarne, è blindata. Allora qualcuno, non so chi dei vicini, telefona al 113.

Intanto l’immagine di Adele riversa sul pavimento, forse addirittur­a in agonia, mi angoscia. «Stia tranquilla, signora» le grido da dietro la porta. «Stanno arrivando i soccorsi!».

Mi risponde un gemito. Dopo neppure un quarto d’ora, che a me sembra comunque un’eternità e in cui ho continuato a parlare ad Adele ricevendo in risposta sospiri e lamenti, ecco che finalmente si sentono delle sirene. Sono arrivati un camion dei vigili del fuoco e un’ambulanza. Al solo vederli mi sento già un po’sollevata. Un attimo dopo, una lunga scala comincia a salire lentamente ronzando dal camion e un vigile riesce a introdursi in casa di Adele da una finestra. Finalmente ci apre la porta e io mi precipito dentro con due paramedici. Quando mi chino su Adele, ancora distesa sul pavimento, lei mi afferra una mano.

«Avverti subito mio figlio».

Trovo il telefonino sul tavolo, cerco il numero di Stefano, lo chiamo ma risulta irraggiung­ibile.

Poco dopo sono anch’io sull’ambulanza. Non potevo

lasciarla andare in ospedale da sola. «Mi dispiace» continua a ripetere Adele. «Mi dispiace darti tanto disturbo. Meno male che mi hai sentita».

È molto pallida ma lucida e si sforza di sorridermi. Al Pronto soccorso viene trasportat­a subito oltre una porta scorrevole. Io mi siedo in sala d’aspetto. Senza accorgermi mi assopisco e sussulto quando un telefonino si mette a squillare.

Sono un po’ intontita, così rispondo senza rendermi conto che è quello di Adele, che mi sono portata via, e per un attimo mi stupisco che qualcuno dall’altro lato mi chiami mamma.

«L’aereo è appena atterrato» mi spiega il figlio di Adele, quando gli dico dove sono. «Arrivo prima possibile».

Passa più di mezz’ora prima che Stefano entri tutto trafelato, in pronto soccorso. È da solo e come bagaglio ha soltanto un trolley. Lo riconosco avendolo già visto in foto. «Stefano!» lo chiamo e lui si precipita da me.

«Non so davvero come ringraziar­la» sospira dopo che gli racconto tutto. «Immagino che ora dovrà andare, è la Vigilia…». Rispondo che non me ne andrò prima di sapere come sta sua madre.

Ci conosciamo in tre lunghissim­e ore d’attesa. Pensavo che Adele avesse esagerato nel parlarmi del figlio, invece scopro che è davvero un bel tipo, simpatico, colto, persino divertente nei limiti concessi dalle circostanz­e. Mi piace molto. Lo trovo interessan­te. È anche un uomo che sa ascoltare, che sa capire. Di tanto in tanto va a chiedere informazio­ni e ogni volta è invitato ad avere pazienza perché sua madre non apbell’uomo

ERA TANTO CHE NON MI SENTIVO COSÌ CONTENTA DI UN NUOVO GIORNO

pare in pericolo di vita e ci sono altre urgenze.

«Ti va un caffè?» mi chiede a un tratto.Torna dopo qualche minuto, con due caffè in bicchierin­i di carta. Deve averli presi a un distributo­re automatico. Gli sorrido grata. Ne avevo proprio bisogno.

Non so com’è che cominciamo a raccontarc­i le nostre vite. Forse in una sala d’aspetto, un po’ come accade sui treni, è facile confidare a perfetti sconosciut­i la propria storia.

«Mamma non lo sa ancora» mi rivela, «ho preferito non dirglielo per telefono, ma con Helga stiamo divorziand­o. Non andiamo più d’accordo da molto tempo e, non avendo figli, non ha più senso restare insieme. Tra qualche mese tornerò a vivere qui. Sto valutando già alcune proposte di lavoro».

Un infermiere viene a chiamarlo e lui lo segue oltre la porta scorrevole. Dopo un poco ritorna per dirmi che sua madre si è rotta un femore e che sarà ricoverata per essere operata appena possibile. Desidera vedermi prima che la trasferisc­ano in reparto. «Ecco la mia salvatrice!» esclama Adele nel vedermi. «Se non mi avessi sentita chissà per quanto sarei rimasta a disperarmi lì per terra». Mi prende la testa tra le mani e mi schiocca due baci sulle guance. «Adesso però devi prenderti cura anche del mio ragazzo» continua sorridendo. «Non lasciarlo solo proprio il giorno di Natale! Le lasagne sono già pronte da mettere in forno. L’arrosto è in frigo…» attacca.

«Ma dai, mamma» la interrompe Stefano con evidente imbarazzo. «Posso arrangiarm­i anche da solo. Abbiamo dato già troppo disturbo a Gloria».

Anch’io mi sento alquanto imbarazzat­a, ma mi dico che lei ha ragione, che non posso lasciare Stefano da solo il giorno di Natale a intristirs­i per la madre in ospedale. «Quanto devono restare in forno le lasagne?» mi informo con un sorriso. «Chissà se ci lasceranno portarle una porzione domani quando torneremo a trovarla». Quando con Stefano lasciamo l’ospedale è ancora buio, ma a est si intuiscono già i primi bagliori dell’aurora. Prendiamo un taxi per andare a casa. Lui è silenzioso, pensieroso. Capisco che è triste, preoccupat­o.

«Andrà tutto bene» gli dico e d’istinto metto una mano sulla sua. Se la porta alle labbra e poi non la lascia più. È strano ma è come se ci conoscessi­mo da tanto. Sono così stanca che, appena a letto, piombo in un sonno profondo. Mi sveglio che è mezzogiorn­o. Quello che è successo ieri mi sembra quasi un sogno. Era da tanto che non mi sentivo così bene e contenta di iniziare un nuovo giorno. «Mamma ti saluta» è la prima cosa che Stefano mi dice, quando vado a suonare alla sua porta. «Le ho appena telefonato. Mi ha detto di stare tranquillo e che non vede l’ora di vederci all’ospedale nel pomeriggio». Adele è proprio una donna eccezional­e. Stefano ha già apparecchi­ato la tavola, infornato le lasagne e affettato l’arrosto.

«Sei un ragazzo d’oro» commento, mentre stappa una bottiglia di vino.

Ci sediamo a tavola.

«Buon Natale!» mi augura con un sorriso sfiorando il mio bicchiere con il suo.

«Buon Natale» replico anch’io con un sorriso. È il nostro primo Natale insieme.

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy