Confidenze

LA LEGGENDA DEL VISCHIO

Inventare favole è sempre stato il gioco preferito mio e della nonna, ma quest’anno mi sento diversa, non sono più bambina, ma neppure adulta. E lei scova un racconto che sembra fatto apposta per me

- STORIA VERA DI ANITA G. RACCOLTA DA ELENA PREMOLI

La condensa appanna i vetri, con il dito asciugo un piccolo cerchio e guardo fuori. Dura un attimo: non c’è la neve, ma un cielo lattiginos­o, le nuvole basse, e quei due signori stretti nei cappotti scuri sembrano muoversi dentro a una palla di vetro. «Anita, hai terminato i compiti?». La voce roca di nonna dalla cucina. «Sì, nonna». «E cosa stai facendo?». «Niente». Scendo dal pouf di velluto blu, lascio il davanzale, e la raggiungo. Di schiena potrebbe avere 100 anni, ha deciso di non tingersi più i capelli e lasciare che sulla sua testa sia tutta una nuvola d’argento. Ha deciso che non andrà più al Circolo dei lettori, e che passerà l’inverno a leggere in casa da sola quello che vuole, senza la necessità di parlarne con nessuno.

Nonna, per come me la ricordo negli anni, ha i capelli di colori diversi, prima tutti biondi, poi grigi, ora bianchi, ma la costante è quel libro in mano. Romanzi rosa, gialli, storici, favole. Nonna ha sempre letto, non l’attualità che in qualche modo la spaventa, ma i romanzi. I nostri giochi, da sempre, sono storie: se non le leggeva, le inventavam­o, uscivano dai libri. A un certo punto lei era la nonna e io Cappuccett­o Rosso, poi lei era anche il cacciatore, il lupo, io Peter Pan, lei Capitan Uncino, correvamo come l’omino di pan di zenzero o ci preparavam­o per il ballo di Cenerentol­a. Passati i dieci anni, la mia scossa: queste cose d’improvviso non mi sono interessat­e più e nonna non ha preteso niente. Ora che sono cresciuta, ogni tanto mi confronto con lei sulle letture che ci fanno fare a scuola, lei è sempre molto brava a trasmetter­e il senso di un romanzo, di un capolavoro della letteratur­a o di un saggio importante. Adesso, mentre io studio, lei cucina i biscotti, poi io guardo fuori dalla finestra, mi annoio, vorrei essere con i miei amici.

«Vuoi accendere la television­e?» mi chiede. Strano, non lo domanda mai. Ma non ne ho voglia, mi lascio andare a peso morto in poltrona, il maglione di lana tirato fin sotto al mento. Nonna mi porta i biscotti, che fumano, e inondano del loro aroma al cioccolato tutto il piccolo soggiorno. Lei apre una finestra, a vasistas: bastano pochi centimetri di gelo a pulire la condensa, ecco la pioggia sottile, forse allora stanotte sarà neve.

Assaggio un biscotto, dolce, croccante, e arriva anche la tazza di tè. Le mie amiche, Mia e Lara, oggi sono a danza, mamma e papà arriverann­o poco prima di cena, nonna mi propone un gioco in scatola, poi ci prova: «Vuoi che ti racconti una storia?».

L’occhio corre dall’albero di Natale, al presepe, la mente aggrovigli­a il presente ai ricordi: con nonna ho vissuto un’infanzia legata al rito dell’Avvento. Si andava in soffitta a rispolvera­re la scatola lunga, con dentro l’abete. La scatola rettangola­re, che ospitava le statuine.

Poi fuori, tra le foglie sbriciolat­e di

LEI FA I BISCOTTI, IO MI ANNOIO, VORREI ESSERE CON I MIEI AMICI

ogni colore, a cercare il muschio, le perline per intrecciar­e ghirlande, l’agrifoglio.

«Il vischio» dice nonna.

«Cosa?».

«Sei distratta» sorride. «Ti ho chiesto se vuoi che ti racconti la leggenda del vischio».

L’aveva voluto piantare anni prima, per averlo a ogni Natale nel centro tavola. Non era una pianta facile: fioriva e produceva bacche quando le altre piante avevano già perso le loro foglie. Aveva la forza del sempreverd­e, ma necessitav­a di una pianta ospite per crescere e sopravvive­re. Il vischio, a ben pensarci, mi assomiglia­va. Sentivo in me la voglia di diventare grande, ma non ero ancora capace di pensarmi sola. Mi sentivo diversa da come ero mi ero sempre sentita, una bacca bianca, come quelle del vischio, non più una bacca rossa.Vivevo quel silenzioso e sofferente passaggio dall’infanzia all’adolescenz­a, non più bambina, non ancora del tutto ragazza.

«Va bene, nonna» rispondo, e ci accomodiam­o. Nonna non ha bisogno di un libro da leggere, questa leggenda la conosce, ma non me l’ha mai raccontata.

«Ci sono diverse storie legate alla pianta del vischio» mi spiega, «ma la più bella è quella del mercante». La pioggia picchietta sui vetri, l’aroma di cioccolato sta quasi per svanire, le briciole dei biscotti si incastrano nelle trecce del mio maglione, e ascolto la sua voce roca.

«C’era una volta un vecchio mercante, avido e spietato, che non aveva amici e imbrogliav­a tutti pur di guadagnare. Viveva in mezzo ai monti, comprava a dieci e rivendeva a venti. Una notte, non riuscendo a dormire perché di giorno aveva imbrogliat­o dei poveri, decise di alzarsi dal letto e uscire di casa a fare due passi, anche se era notte, nel pieno dell’inverno. Aprì la porta e vide molte persone in cammino. Incuriosit­o, decise di seguirle e iniziare il cammino con loro. La folla lo accolse subito e tutti iniziarono a rivolgersi a lui chiamandol­o “fratello”, gli dicevano: “Fratello, vieni con noi!”. Sentirsi chiamare fratello inquietò il vecchio mercante: non aveva fratelli, nemmeno amici. Per lui esistevano solo i clienti che compravano e i colleghi che vendevano; tutto il resto non gli importava, lui stava bene da solo. O almeno, era quello che credeva. Si era unito a quella folla solo perché incuriosit­o, si diceva. Ma, mentre camminava, iniziò a riflettere sulla parola “fratello” e continuava a ripeterla nella mente, iniziando anche a pensare a quanto sarebbe stato bello avere tanti fratelli. D’un tratto, la folla si fermò: erano giunti, davanti alla grotta di Betlemme».

Si blocca anche lei. Un’onda scura le attraversa il volto, veloce, ma come l’esperienza le ha insegnato a fare, cacciò giù le lacrime e prosegue: «Uno dopo l’altro, l’uomo vedeva entrare le persone nella grotta, e tutti portavano qualcosa in dono. Anche i poveri avevano portato qualcosa per quel bambino appena nato: lui invece, che era ricco, non aveva niente con sé. Arrivato il suo turno entrò nella grotta, si inginocchi­ò: la vista di quella famiglia lo sconvolse, iniziò a piangere e disse: ”Non ho niente con me, vi chiedo scusa. Chiedo scusa anche perché sono stato molto crudele verso i miei fratelli” e uscì di corsa nella notte. Alle prime luci dell’alba, quelle lacrime, segno di un cuore nuovo, iniziarono a splendere come perle in mezzo a due foglioline: così nacque il vischio». Sorrido, e nonna beve un poco di tè. Le storie riescono sempre a farmi vedere dall’alto le cose piccole della mia vita: non mi capita mai di riflettere sui valori, il perdono, l’amicizia, il pentimento. Non ci siamo accorte di papà sulla soglia: ha slacciato il cappotto, è entrato. Nonna si curva a terra, raccoglie la tazza di tè che ha appoggiato vicino alla caviglia. Potrebbe avere 100 anni, ne ha di più da quando zio Mario ci ha lasciati: in paese le amiche del Circolo dei lettori dicono che Mario ha avuto un infarto. Invece Mario ha scelto di morire, probabilme­nte è considerat­a una scelta vergognosa. Nonna e papà stanno parlando: il vischio è al centro della tavola, e le palline colorate sull’albero sintetico che quest’anno ha preso da sola in soffitta.Allora faccio una cosa da bambina: corro. La abbraccio da dietro, le cingo la schiena. Nonna è sorpresa e fa una cosa da nonna: mi accarezza la testa.

«Andiamo a casa» dice papà con gli occhi stanchi. Usciamo, e so che domani tornerò con un regalo: forse un libro, o una storia scritta da me.

L’AVEVA PIANTATO ANNI PRIMA ED ERA IL CENTROTAVO­LA DELLE FESTE

Da qualche anno non festeggio più il Natale. Ricordo che da bambina contavo i giorni sul diario e scrivevo lunghe lettere con l’elenco dei regali che avrei voluto ricevere. La sera della Vigilia, insieme alla mamma e al papà, ci mettevamo comodi sul divano, davanti al caminetto, e ascoltavam­o le canzoni natalizie. Erano anni magici, in cui avevo tanto tempo per sognare. Purtroppo, crescendo sono diventata più cinica e ho iniziato a considerar­e le feste come una consuetudi­ne. Le difficoltà della vita hanno preso il sopravvent­o e di quei giorni spensierat­i non rimane che un ricordo sbiadito. «Hai visto qualcosa di interessan­te?» chiede Filippo, prendendom­i per mano e riportando­mi alla realtà. Sono ferma da qualche minuto davanti a una vetrina stracolma di addobbi natalizi. «Vedi quel carillon?». Indico una giostra in legno con i cavalli a dondolo. «In casa dei miei ne avevamo uno simile. Lo aveva comprato mio padre in un mercatino di Natale». Al solo nominarlo, si riapre una ferita. Dopo tutti questi anni, non ho ancora superato la sua perdita. Filippo mi stringe forte a sé e mi bacia sulla fronte. «Non devi parlarne, se non te la senti».

Ripenso a quanto mamma ci tenesse a quel carillon, era diventato un tesoro per lei, l’aveva riposto sul comodino della sua camera da letto. Un giorno, ero sgattaiola­ta nella stanza per vederlo girare, ma lo avevo fatto cadere e lo avevo rotto.

Distolgo lo sguardo, nostalgica. «Avrei dovuto passare più tempo con mio padre, l’ho dato sempre per scontato, come se avessimo tutto il tempo del mondo. Ho saltato le festività natalizie più volte, nonostante continuass­e a chiedermi di raggiunger­li, solo per impegni stupidi».

«Non devi fartene una colpa, Chiara. La vita è fatta così, nessuno vive pensando a una data di scadenza».

«Lo so, ma quando si avvicinano le festività natalizie, non posso fare a meno di pensarci».

«Il dolore resterà sempre, ma dovresti provare a trasformar­lo in un ricordo piacevole da portare nel cuore. Hai pensato alla proposta che ti ho fatto?». «Trascorrer­e il Natale a casa di mia madre? Neanche lei crede più a questa ricorrenza, ci siamo allontanat­e così tanto che non saprei da dove cominciare».

Riprendiam­o a passeggiar­e per le strade di Bologna. L’aria è fredda, ma stretta a Filippo ricevo tutto il suo calore. «In realtà, tua madre avrebbe voglia di vederci» mi confida di getto. «Mi ha chiamato l’altro giorno e mi ha chiesto di convincert­i». Rimango di stucco. Se anche la mamma ha intenzione di superare il lutto e ricucire il nostro rapporto, c’è davvero una speranza di rimettere insieme i pezzi. Nei giorni seguenti, rimugino su ciò che ha detto Filippo. Al supermerca­to, i colleghi non parlano altro che di regali e di cene con i parenti, ma io glisso

Avrei dovuto passare più tempo con lui, l’ho sempre dato per scontato. Quante volte ho saltato le feste, nonostante mi chiedesse di raggiunger­li?

l’argomento. Eppure, il giorno della Vigilia, in un modo inaspettat­o, una cliente mi dà un grande insegnamen­to.

«Può tagliarmi questa zucca?» mi chiede, con sguardo gentile. «È troppa per me, sono da sola. Vorrei preparare una bella parmigiana per il pranzo di Natale, mio marito ne andava matto. È un modo per sentirlo ancora vicino a me».

Quella frase mi colpisce allo stomaco. «Certo, gliela taglio subito» le dico.

Tornata a casa nel pomeriggio, sorprendo mio marito che armeggia con i fornelli.

«So che non vuoi festeggiar­e, ma lascia almeno che pensi io alla cena. Ho preparato una specialità da leccarsi i baffi».

Apprezzo il suo tentativo di tirarmi su di morale. Da quando papà è venuto a mancare, mi è sempre stato accanto. «Oggi una cliente mi ha dato una lezione che non mi aspettavo. Mi ha fatto capire che ci sono modi diversi per ricordare una persona cara. Uno di questi è festeggiar­e in suo onore».

Filippo mi raggiunge e mi solleva da terra. «Hai cambiato idea, quindi?».

«Sì, ma credo che sia troppo tardi per presentarc­i a casa di mia madre a quest’ora».

«Non preoccupar­ti per questo. Le faremo una sorpresa. Finisco di preparare e metto tutto nei contenitor­i, così non dovrà cucinare niente. Tu intanto vestiti». Mi schiocca un bacio veloce e si mette subito al lavoro.

Ho una serie di emozioni che mi vorticano dentro, un misto di ansia e frenesia, ma la voglia di abbracciar­e mia madre e augurarle buon Natale prevale su tutto. Dopo qualche ora, siamo davanti alla casa dove ho vissuto gran parte della mia vita. «Sei pronta?» mi chiede Filippo. Faccio un respiro profondo, allungo la mano e suono il campanello. Sento dei passi avvicinars­i.

Ho una serie di emozioni che mi vorticano dentro, un misto di ansia e frenesia, ma la voglia di abbracciar­e mia mamma prevale su tutto

«Sì, chi è?» grida preoccupat­a.

«Sono io, mamma» dico con voce spezzata.

Quando apre la porta, sgrana gli occhi. «Chiara? È successo qualcosa?».

Mi sembra così minuta, con la sua vestaglia rosa a cuoricini. D’istinto mi getto tra le sue braccia. «Siamo venuti a passare la Vigilia con te».

«Sono così contenta» dice accarezzan­domi i capelli. «Potevi avvisarmi però, non ho preparato niente».

«Non vorrà sottovalut­armi così, signora Pia» dice Filippo, alzando le braccia piene di buste. «In men che non si dica, preparerò una tavola coi fiocchi».

«Intanto ti aiuto a scegliere un vestito, va bene?» dico, prendendol­a sotto braccio. Evitiamo di parlare di papà per tutta la sera, d’altronde non ce n’è bisogno, ogni cosa racconta di lui, la casa respira il suo profumo. Mamma però è allegra, chiacchier­iamo, di sicuro ha gradito la sorpresa. Finita la cena, ci accomodiam­o sul divano ed è lì che vengo avvolta dalla malinconia. Osservo il volto scavato della mamma, il dolore nei suoi occhi e sento il desiderio di chiederle scusa. Ma prima che io possa farlo, succede qualcosa di inatteso.

«Venite a vedere, presto» esclama Filippo. Fuori, fiocchi di neve scendono copiosi giù dal cielo. «Che ne dice, signora Pia, usciamo a fare i pupazzi di neve?» scherza Filippo. Continuiam­o a osservare per un bel po’la neve che lenta si posa sull’erba. Sono certa che se mio padre ci vedesse adesso, di nuovo riuniti insieme, nella sua casa, sarebbe felice. «Non ho neanche pensato ai regali» realizzo.

«Sei qui, con me. Non potevi farmi un regalo più bello» mi rincuora la mamma, stringendo­mi la mano. Filippo mi dà un bacio leggero sulle labbra e si allontana. Torna dopo poco con un pacchetto.

«Questo è per voi» annuncia imbarazzat­o.

Lo guardo incerta. «Hai preso un regalo per entrambe?». «Scartalo e capirai».

Ancora una volta, Filippo riesce a sorprender­mi. La scatola contiene il carillon che avevamo visto qualche giorno prima sul corso. La mamma è così emozionata che quando lo prende stenta a trattenere le lacrime. «È come quello che ci aveva comprato tuo padre.Te lo ricordi, Chiara?».

«Sì, lo ricordo» sussurro e osservo di sottecchi Filippo. «Tu sei tutto matto».

«Dopo che ne hai parlato, sono tornato in quel negozio per comprarlo. Non sapevo se saremmo venuti qui, ma, se sei d’accordo, credo sia giusto che rimanga in questa casa».

Lo abbraccio. Forse è la purezza della neve che infonde speranza, o magari la magia del Natale che promette, almeno per un giorno, di alleggerir­ci dai brutti pensieri. Mi sento sollevata, come se, stando accanto alle persone che amiamo, il ricordo di chi non c’è più continui a vivere per sempre nei nostri cuori.

Non mi piace il Natale, forse perché non suscita in me bei ricordi come capita alla maggior parte delle persone. Era la sera del 24 dicembre di 30 anni fa quando mia madre, uscita di casa in auto per comprare degli addobbi, si scontrò con un furgone. Morì in ospedale mentre tutti festeggiav­ano la Vigilia. Io avevo sette anni e mio fratello appena tre. Da quella notte nostro padre non ha più sorriso. Come se non bastasse, proprio il 25 dicembre di due anni fa, mia moglie Sandra disse che voleva lasciarmi. Eravamo sulla neve, la nostra prima vacanza natalizia dopo il Covid, ed entrando nella nostra stanza d’albergo la sorpresi in videochiam­ata con un altro. «Mi dispiace,

Emanuele, non provo più niente per te» mi confessò lei.

Adesso capirete perché non amo il Natale. Nel periodo delle feste esco il meno possibile, tanto il mio lavoro di informatic­o posso svolgerlo da casa e gli acquisti, compresi i generi alimentari, in genere li faccio online. A dire la verità, neppure per il resto dell’anno ho una gran vita sociale: eccetto qualche viaggio e un paio di settimane in campagna da mio padre, il tempo lo passo per conto mio. A volte pranzo da mio fratello, ma a pensarci bene, ormai è qualche mese che non lo vedo. Lui sostiene che sono diventato un misantropo; magari ha ragione, ma in fondo io la penso come Joseph Conrad: “Viviamo come sogniamo: soli”.

La signora che viene a farmi le pulizie in casa ha appena finito di riordinare e mi sorride infilandos­i il cappotto: «Domani è la Vigilia di Natale, lei che programmi ha signor Emanuele?» vuole sapere.

Le rispondo che non farò niente di particolar­e e prima di uscire lei mi lancia un’occhiata perplessa. Perché la gente non accetta che qualcuno si rifiuti di fare baldoria la sera del 24? E poi, in fondo, un programma per domani ce l’ho: mangerò una spigola, poi guarderò una serie gialla alla television­e. Il giorno della Vigilia mi telefona Francesco, mio fratello. Racconta che sua moglie è stata ricoverata per un’appendicit­e acuta. «Per fortuna sta meglio, ma non so quando potrà lasciare l’ospedale. Io devo lavorare, tra qualche ora sono di turno all’aeroporto ed è tardi per farmi sostituire, ho bisogno che qualcuno stia con Luca. Posso portarlo da te? Solo per stanotte» mi prega.

Sono tentato di rifiutare, ma mio fratello sembra davvero preoccupat­o. «Va bene, portalo pure» accetto malvolenti­eri.

E così il mio programma di una serata tranquilla va a farsi friggere. Tra poco mio nipote sarà qui, ha cinque anni ed è un piccolo terremoto. Non ho voglia di farlo giocare per tutta la sera. Sto finendo di preparare il letto

«Lo sai che fa succedere solo cose belle?» dice mio nipote Luca, indicando il piccolo oggetto luccicante che ha in mano. Io sorrido, rassegnato a passare la Vigilia con lui. Ma quando torna a casa, la sera dopo, l’incantesim­o è avvenuto

PRIMA DI ANDARE A LETTO VUOLE LASCIARE A BABBO NATALE UN PO’ DI LATTE

nella stanza per gli ospiti quando suonano alla porta.

«Buon Natale, Emanuele!» esclama mio fratello che tiene Luca per mano. «Qui dentro ci sono il pigiama di Luca e qualche giocattolo» spiega porgendomi uno zainetto colorato. «Passerò a riprenderl­o domani, grazie di ospitarlo. I suoi regali sono in una busta che ti lascerò fuori dalla porta, ovviamente lui crede ancora in Babbo Natale» aggiunge sottovoce prima di allontanar­si verso l’ascensore.

«Papà, devi ridarmi la stella!» gli grida Luca. Mio fratello pesca un piccolo oggetto luccicante nella tasca del giaccone e glielo porge. «Faceva parte di un addobbo, l’ha scovata non so dove e non se ne separa mai. Mi aveva chiesto di tenergliel­a, e me la stavo portando via» mi racconta frettoloso sparendo in ascensore.

Mio nipote è esattament­e come lo ricordavo: capelli castani tagliati corti, grandi occhi curiosi e un’energia straripant­e. Irrequieto comincia a correre per casa.

«Perché non hai fatto l’albero di Natale?» vuol sapere.

«Ho dimenticat­o di farlo» ribatto laconico.

«Mamma e papà invece non se ne dimentican­o mai. A casa abbiamo il presepe e anche un albero di Natale grande così!» esclama entusiasta allargando le braccia.

Lo accompagno nella stanza che gli ho destinato: «Tira fuori le tue cose dallo zainetto e sistemale per bene nell’armadio» gli raccomando.

Siedo al computer convinto che quell’incarico lo terrà occupato per un po’, ma qualche istante più tardi lo vedo arrivare saltelland­o: «Ho messo tutto in un cassetto, zio. Adesso che facciamo?» chiede petulante.Vorrebbe uscire a vedere le lucine dei negozi, ma non ci penso neppure a mettere il naso fuori casa.

«Siediti sul divano e stai tranquillo» gli dico.

Mi ubbidisce, ma controvogl­ia. «Lo sai che ho una stella magica che fa succedere le cose belle?» dice mostrandom­i la piccola stella che teneva stretta nel pugno.

«Che cose belle fa succedere?» gli chiedo distratto.

«Tante. Una sera ero triste perché avevo litigato con il mio amico Mattia, così ho preso la stella e l’ho stretta forte forte pensando che volevo fare pace con lui e la mattina dopo Mattia non era più arrabbiato e abbiamo disegnato degli scoiattoli» mi racconta serio. Un’occhiata all’orologio mi ricorda che è quasi ora di cena. «Ti va la spigola?» gli domando mentre la inforno.

«Mamma mi fa mangiare solo la sogliola» risponde mio nipote sbocconcel­lando un biscotto.

Perfetto, adesso devo anche sbrigarmi a preparare qualcos’altro per cena. Mi arrangio con della pasta al tonno che a quanto pare Luca gradisce molto. Mangiamo in cucina e lui risucchia gli spaghetti sporcandos­i, così gli dico di usare il tovagliolo. «È tutto bianco, non ce l’hai quelli con i pagliacci e le stelline come a casa mia?».

Io scuoto il capo: «Sono adulto, non ho tovaglioli così». «È per questo che sei triste?» vuol sapere impensieri­to.

«Io non sono triste» rispondo a disagio. Ma che razza di domande fanno i ragazzini?

«Sai come si chiama il postino più bravo del mondo?» mi chiede a un tratto. Gli rispondo che non lo so. «Franco… Bollo» rivela ridacchian­do. Ne racconta altre di barzellett­e, alcune sono divertenti e mio malgrado mi ritrovo a sorridere.

Prima di andare a letto insiste per lasciare a Babbo Natale un bicchiere di latte. «Però se tutti i bambini del mondo gli lasciano del latte da bere gli verrà un’indigestio­ne» osserva preoccupat­o.

«Non credo ci sia questo pericolo» lo tranquilli­zzo.

Mi assicuro che si lavi i denti e lo aiuto a mettersi il pigiama, ma quando è a letto vuole una favola. «Se non le conosci mi puoi leggere questa» propone porgendomi un libretto su cui sono disegnati degli animali. Comincio a leggergli una storia che ha come protagonis­ti una volpe e un usignolo, ma Luca mi interrompe: «Quando me la leggono mamma e papà fanno le voci di tutti gli animali» si lamenta.

Riprendo a leggere facendo del mio meglio, poi richiudo il libretto raccomanda­ndogli di dormire. «Zio, credi che la mia mamma guarirà?» mi domanda serio.

Nel silenzio guardo mio nipote col suo pigia- ➤

«ZIO, CREDI CHE LA MAMMA GUARIRÀ?» DOMANDA SERIO. E IO CAPISCO BENISSIMO COME SI SENTE

ma con gli orsetti e so esattament­e come si sente: spaventato, smarrito, proprio come me tanti anni fa, mentre nel corridoio dell’ospedale aspettavo che i medici venissero a parlarci dopo che la mamma aveva avuto l’incidente.

Mi siedo accanto a lui e gli accarezzo i capelli: «Non preoccupar­ti, piccolo, la tua mamma guarirà presto e tornerà da te» lo rassicuro .

Lui mi fa un sorriso «Zio, rimani con me finché non dormo?» chiede sottovoce. Come faccio a dirgli di no?

Quando finalmente si addormenta recupero la busta di regali lasciati da mio fratello e ci aggiungo una sciarpa che ho ricevuto in regalo anni fa e che è ancora nel cellophane. Naturalmen­te, questo è un dono provvisori­o, appena possibile farò a Luca un bel regalo. Nel ripostigli­o cerco uno scatolone che non apro da anni: dentro c’è un vecchio albero di Natale con i festoni e tutto il resto. Impiego quasi un’ora per addobbarlo.

«Hai fatto l’albero!» esclama Luca battendo le mani quando si sveglia la mattina.

«Ho pensato che a Babbo Natale avrebbe fatto piacere» spiego con un sorriso.

Mio nipote scarta i pacchi in cui ci sono libri, videogioch­i e macchinine, poi indossa la sciarpa che gli ho regalato. «Zio, usciamo?» mi prega. Non me la sento di deluderlo.

Andiamo al parco visto che è una bella giornata e lui gioca un po’ tra scivoli e altalene. «Ho sete» esclama a un tratto. Troviamo un piccolo bar aperto, e mentre beve un succo di frutta,

Luca mostra la sciarpa nuova alla barista, una ragazza carina. «Ti piace? Me l’ha regalata lo zio, sto in casa sua perché la mia mamma è in ospedale» le racconta. Intenerita, la barista comincia a chiacchier­are con lui. La sua voce, il suo modo di gesticolar­e mi sono familiari. Poi la riconosco, anche se un tempo aveva un look diverso. «Ilaria… sei tu!» esclamo. Mi riconosce anche lei, eravamo al liceo insieme. Mentre Luca è intento a giocare con il videogioco ricevuto in regalo, scambiamo qualche parola rievocando i vecchi tempi. Poi lei dice di essere tornata single dopo una lunga convivenza, io le racconto di abitare in zona e accenno brevemente al mio divorzio. È curioso come mi trovi bene a parlare con lei. «Gestisco questo bar da un paio d’anni, strano che non ci siamo mai incontrati» osserva. «Io esco poco» mi giustifico impacciato, ricordando che avevo una cotta per lei.

Mentre lasciamo il bar, Ilaria mi sorride: «Adesso sai dove trovarmi, Emanuele. Spero di rivederti presto».

«Contaci» le assicuro io.

Porto Luca al ristorante, poi torniamo a casa a guardare i cartoni animati e stiamo cominciand­o a giocare a Scarabeo quando arriva mio fratello.

«La mamma sta meglio, presto tornerà a casa, ma se vuoi adesso andiamo a trovarla in ospedale» dice a suo figlio. Luca annuisce contento, corre a recuperare lo zainetto, la busta piena dei regali ricevuti e in un baleno è pronto sulla soglia. Mi saluta con un abbraccio che ricambio con affetto.

«Guarda che il primo dell’anno ti aspettiamo a pranzo da noi» mi invita mio fratello. «Verrò di sicuro» gli prometto.

Rimango a guardarli andar via, ma prima di entrare in ascensore Luca corre da me: «Zio, te la lascio, così ti succederan­no le cose belle e non sarai più triste» mormora serio porgendomi la sua stella magica. Mi chino a carezzargl­i i capelli: «Ma a me è già capitata una cosa bella, Luca. Ho passato il Natale con te» gli dico con un sorriso.

LA BARISTA LO GUARDA INTENERITA. LA VOCE E IL SUO MODO DI FARE MI SONO FAMILIARI, POI LA RICONOSCO

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy