Confidenze

Il miracolo del manichino

- STORIA VERA DI ADA RACCOLTA DA MARIA SERENA CAVALIERI

Da quando erano mancati i miei genitori cercavo di riempire la solitudine con vari hobby, tra cui il cucito, ma il vuoto restava. Fu proprio in un negozio di sartoria che imparai a vedere le cose in modo diverso

GENOVA, 1984 uando arrivò l’estate non ero pronta. Avevo compiuto da poco 30 anni e stavo cercando ancora un degno sostituto per l’uncinetto, abbandonat­o due anni prima per problemi al polso. Era stato proprio l’uncinetto a tirarmi fuori tutte le volte che la solitudine aveva rischiato di travolgerm­i, soprattutt­o dopo la morte dei miei genitori.

Per i primi tempi avevo provato a ignorare il problema, ma poi erano arrivati i consigli medici e infine una diagnosi che prevedeva l’utilizzo di un tutore per un periodo.

Trascorso questo tempo, iniziai a cercare qualcosa che potesse sostituire l’uncinetto. Mi era infatti stato sconsiglia­to di ricomincia­re. Avevo tentato con il découpage comprando album e fogli di carta adatti. Ma bastò poco per farmi rendere conto che incollare e ritagliare non mi piaceva proprio. Verso i primi di luglio, passando davanti all’edicola, lasciai cadere l’occhio su una rivista di cucito sartoriale. “Perché no?” avevo pensato. E l’avevo presa. Possedevo già una macchina da cucire perché in casa c’era quella della nonna ancora perfettame­nte funzionant­e. Arrivò dicembre e avevo già confeziona­to qualche gonna e una camicetta, tutte cose indossate e molto apprezzate dalle colleghe del negozio di fiori dove lavoravo. Forse avevo davvero talento per il cucito e potevo provare a cimentarmi in

Qqualcosa di più complesso ed elaborato. «Quando inizi il mio costume da Uomo ragno?» mi chiedeva ogni giorno mio nipote Marco. Sua madre Roberta, mia sorella maggiore, desiderava invece che le confeziona­ssi un abito da sera.

«Chissà, forse lo farò per Natale» le rispondevo, «però per farlo, dovrei riuscire a procurarmi un manichino».

Era proprio quello il salto di qualità che stavo cercando. Perché ormai ne ero sicura, senza un manichino sartoriale, non sarei mai diventata la regina del cucito. Non potevo comprarmen­e uno nuovo e così iniziai a cercarlo usato. Dopo vari tentativi, trovai il numero di un negozio di stoffe. Al telefono rispose un uomo che mi confermò la disponibil­ità di quello che stavo cercando.

Il negozio vendeva articoli di sartoria e si trovava nel centro storico di Genova sul fondo di uno dei tanti vivaci palazzi che ci sono da queste parti, allietati dall’immancabil­e presenza dei mercati rionali e del pesce fresco. Era molto più grande della latteria che frequentav­o ogni giorno nel mio quartiere, ma decisament­e più soffocante. Metri e metri di stoffa sembravano sul punto di sommergerm­i completame­nte.

A evitare il peggio, dietro al bancone di legno scuro, c’era quello che doveva essere il proprietar­io. Aveva una curata barba scura e indossava un elegante completo gessato blu. Come un capitano di mare, l’uomo sembrava deciso a non abbandonar­e la nave fino a quando tutta quella stoffa fosse rimasta al suo posto, ovvero ➤

Avevo già una macchina da cucire a casa, quella della nonna, così decisi di provare a usarla

Il negozio si trovava nel centro storico di Genova, reso ancora più bello dalle luminarie accese

dietro di lui. Ad annunciarg­li il mio arrivo era stato l’allegro suono del campanello dorato sulla porta, reso ancora più gioioso dall’abete artificial­e carico di palline colorate che si trovava all’ingresso. Accanto all’albero, c’era proprio un manichino. Si trattava di un modello in legno, pesante e datato, ma ben conservato. Poco dopo avevo comprato il mio nuovo manichino usato. Non mi restava che portarmelo a casa, ma farlo con l’autobus sarebbe stato impossibil­e. Mi acordai dunque per tornare a prenderlo il giorno dopo con Roberta e la sua macchina.

Quel pomeriggio, salimmo in tre sull’utilitaria di mia sorella. Roberta guidava mentre io sedevo dietro, accanto a mio nipote.

«Guarda, zia» urlò a un certo punto il bambino indicando, fuori dal finestrino, le luminarie accese. Era lo spettacolo delle strade di Genova che ogni anno per Natale indossava l’abito più bello per regalare emozioni. Erano le stesse luci che tanti anni prima illuminava­no la tanto attesa pesca di beneficenz­a del quartiere. Se avevi fortuna potevi vincere una bambola di celluloide con un delicato fiocco azzurro o rosa tra i capelli. Una volta arrivati sbirciammo dentro al portone del palazzo e notammo una donna, probabilme­nte la portinaia, che stava addobbando l’albero con stelle d’oro e capelli d’angelo. Fu Marco a spingere per primo la porta del negozio che però non si aprì. Forse il padrone si era allontanat­o per qualche minuto? Sarebbe sicurament­e ricomparso da un momento all’altro, ma ciò non accadde. Intanto, la portinaia aveva finito e dopo circa mezz’ora di inutile attesa, Roberta suggerì di tornarcene a casa. La sera seguente, mentre stavo guardando il telegiorna­le, mi telefonò una donna, che si presentò come la figlia del proprietar­io del negozio. Aveva trovato il mio numero tra gli ordinativi. Suo padre aveva avuto un infarto, disse, si trovava in ospedale ma era fuori pericolo. «Quando io avevo sei anni e mio fratello ne aveva due» iniziò a raccontare la ragazza, «papà, che aveva aperto da poco il negozio assieme alla mamma, passò un difficile momento dal punto di vista finanziari­o. Si arrivò al punto di dover impegnare l’oro e l’argento di casa. Pagata una parte dei debiti, per far passare a noi bambini un Natale più sereno, mia madre decise di vendere il vecchio manichino del padre che faceva il sarto e sul quale lei aveva imparato a cucire. Quando lo venne a sapere, mio padre si infuriò, sapendo quanto la moglie tenesse a quell’oggetto. “Non ti preoccupar­e” l’aveva rassicurat­o lei, “un giorno ci riprendere­mo tutto”. “Ma come faremo a riconoscer­e il tuo manichino tra altre decine di manichini tutti uguali?” aveva chiesto lui. “Vedrai che ci riusciremo” aveva risposto lei con un sorriso enigmatico. In effetti, nel tempo recuperaro­no sia l’oro che l’argento, ma non il manichino. Così da quando la mamma è morta, papà ha iniziato a cercare il suo manichino, certo che in qualche modo sarebbe riuscito a riconoscer­lo. Metteva spesso delle inserzioni sul giornale e così facendo di manichini in negozio ne sono passati tanti, ma non erano mai quello giusto e poco dopo venivano rivenduti. Proprio come quello che hai comprato tu. Prima però andavano puliti e lucidati. Quando ieri pomeriggio papà ha notato di aver finito l’olio paglierino, è andato a comprarlo in drogheria. Come sempre si sarà attardato a parlare di calcio in qualche altro negozio della zona. Una volta rientrato, si è accorto di un pezzo di carta incastrato dentro al collo del manichino. Era un biglietto del cinema, datato 24 dicembre 1946. Il film era Sciuscià e lui ricordava molto bene quel pomeriggio, ma soprattutt­o il volto della giovane donna seduta accanto a lui e che qualche anno dopo sarebbe diventata sua moglie. “Agnese, ascolta, non ci crederai” mi ha annunciato poco dopo al telefono con me, che da qualche giorno sono a casa con un brutto raffreddor­e, “ho trovato il manichino della mamma”. Ma non ha fatto in tempo a finire la

frase che ha lasciato andare la cornetta. Ho continuato a chiamarlo ma inutilment­e. Ho capito subito subito che doveva essere successo qualcosa di grave, quindi ho chiamato un’ambulanza in negozio e mi sono precipitat­a lì anch’io. Ho trovato mio padre accasciato dietro al bancone. Una volta in ospedale, il medico mi ha detto chiarament­e che se in quel momento non fosse stato al telefono con me, probabilme­nte sarebbe morto. Adesso lo aspetta una lunga convalesce­nza ma per fortuna sta meglio e insieme volevamo ringraziar­ti perché è anche merito tuo se il manichino della mamma è stato ritrovato. Naturalmen­te capirai che data la situazione, non possiamo più venderlo. Puoi passare quando vuoi a riprendere i soldi» concluse Agnese. Naturalmen­te mi dissi d'accordo, non potevo certo pretendere di togliere a suo padre quel manichino.

Ci demmo appuntamen­to per vederci al negozio dopo Natale e ci salutammo scambiando­ci gli auguri.

«Comprerai un altro manichino?» mi chiese Agnese porgendomi i soldi.

«Forse sì. Ma se continuerò a cucire lo farò con una nuova consapevol­ezza. Quando mi hai telefonato per farmi sapere del tuo papà, mi hai emozionata così tanto con la storia della tua famiglia che da quel momento ho riflettuto molto. Da quando sono morti i miei genitori mi sono spesso sentita triste. Vivo da sola nell’appartamen­to di famiglia, ma ora non ci sono più le allegre risate di papà seduto sul divano davanti al varietà del sabato sera. Mi mancano anche i loro bonari battibecch­i perché non sono mai riusciti a scheggiare di un millimetro l’amore che li legava l’uno all’altro. Così in questi ultimi anni ho cercato di riempire la mia solitudine con l’uncinetto. Da quando però sono stata costretta ad abbandonar­lo per un problema di salute, mi sono sentita persa. Ho imparato a cucire e devo dire con discreto successo. Ma quella sensazione di vuoto era sempre lì, sembrava non abbandonar­mi mai».

«E poi?» chiese Agnese a mani giunte e con entrambi i gomiti appoggiati al bancone. «E poi è arrivata la tua telefonata. Ho pianto così tanto, ma una volta asciugate le lacrime di commozione ho capito che l’amore vero non conosce barriere. Così ora so che i miei geni

Ora capisco cosa intendesse la mamma quando diceva che bisogna godersi gli affetti più cari

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