EDCCO LA VERA MAGIA
Volevo un vero abete, con il profumo di bosco fresco e di resina: solo così, il Natale sarebbe stato perfetto. Con il sostegno di mio marito e l’entusiasmo del nostro piccolo Leo, avevo organizzato tutto. O almeno credevo
L’occhio mi cadde sul calendario: era il 5 dicembre. Una ventina di giorni e sarebbe stato Natale. Un brivido. Ricordai in un attimo le festività di quando ero bambina, quando con gli occhi venivo risucchiata in un mondo magico ricco di scintillii e di incantesimi. Quelle luci mi avvolgevano e mi illuminavano dentro fino a togliermi il respiro.
Difficile spiegarlo. Ogni Natale cercavo di ricostruire quell’atmosfera iniziando dall’albero. Lo volevo rigorosamente vero, da cui trapelasse profumo di bosco, fresco e pungente. Ma, puntualmente qualcosa rovinava i miei piani. Prima, da bambina e adolescente, per un motivo o un altro non mi era stato mai permesso di fare a modo mio. Da adulta poi, vuoi per il lavoro che mi teneva occupata fino a buona parte della Vigilia, quando ormai i vivai erano chiusi o quasi svuotati. Vuoi perché, dovendo scendere a patti con la mia perfezione maniacale in fatto di decorazioni, finivo per non riuscire a scegliere l’albero che ritenevo adatto, né gli addobbi che mi soddisfacessero. Conclusione: nulla di fatto.
Ogni volta, poi, a una manciata di tempo dalla fatidica data ripiegavo su un anonimo alberello dai rami plastificati e senza carattere del vicino centro commerciale. Spesso già corredato da lucine puntigginose o dalla luce opaca. Mi ripromettevo poi di fare le cose in grande stile l’anno successivo. Davanti a quello strano groviglio di rami a cui bastava una sola mano per stenderli, mi veniva in mente quel Natale di molti anni prima che aveva acceso la scintilla di questo mio atteggiamento di cui non riuscivo, o non volevo, liberarmi.
Avrò avuto sette o otto anni, abitavo in un condominio di periferia e avevo una gran voglia di vivere un Natale con un abete vero, andare a comprarlo in un vivaio, dove ce n’erano così tanti e profumati da far girare la testa, e poi bere
I MIEI ERANO ALBERI DI PLASTICA E INODORI A CUI NEGLI ANNI MI ERO ASSUEFATTA
la più buona cioccolata calda del mondo con mamma e papà come facevano tante mie amiche. Era l’inizio della festa, o meglio, era già quella la festa!
Lo reclamavo con tutta la tenacia e la caparbietà dei miei teneri anni dando sfogo al mio repertorio di strilli e piedi sbattuti a terra. Nonostante la battaglia ferrea rimediai solo un «Non se ne parla! È una perdita di tempo. cosa sono queste richieste? Un albero è un albero». Parole pronunciate quasi all’unisono dai miei, sempre molto pratici e occupati da problemi e impegni che non riuscivo a vedere. Cosa potevo farci? In fondo ero solo una bambina e alla mia insistenza seguì una sgridata, che equivaleva a un “no” perentorio e indiscutibile. Così anche quel Natale sarebbe stato plasticamente inodore. L’abete vero che tanto avevo desiderato lo trovai in salotto, inaspettatamente, un paio d’anni più tardi, con l’obbligo categorico di raccogliere ogni aghetto che fosse caduto sul pavimento evitando ogni gesto che ne causasse la caduta come corse o gesti inconsulti vicino all’albero. Perciò trascorsi le giornate a raccogliere inafferrabili aghi di abete che, beffardi, si nascondevano nelle fessure più improbabili, addirittura tra una piastrella e l’altra. Il sapere che quella condizione non era solo mia, ma di altre mie amiche e che gli addobbi dalla luce intermittente parevano avvolgermi nel loro mondo, mi consolava parecchio e il resto passava in secondo piano.
Fu l’ultimo anno che si fece l’albero. Da quello successivo i miei optarono per allestire il solo presepe, più pratico, pulito, rappresentativo, così dicevano. Al suo posto, una capanna di legno con all’interno i personaggi principali della Natività. Non obiettai, la forza della battaglia si trasformò in delusione e un sottile risentimento si annidava in me, facendo crescere un desiderio sfrenato di creare un Natale che colmasse quelle che sentivo come mancanze. Si sa, la vita scorre svelta e ti porta altrove, tra le molte cose da fare poi aveva inglobato anche i miei Natali, rendendoli frettolosi e preconfezionati, facili da ricreare e veloci da rinchiudere in una scatola finite le feste. Proprio come aveva sempre fatto la mia famiglia. Intanto, però, il desiderio restava lì. In attesa.
Q uesto Natale, però, era diverso. Lo volevo per me, per mio marito Leonardo, e per il piccolo Simone di 11 mesi, nostro figlio. Simone, il mio tutto. Loro, noi, ci meritavamo un abete vero, profumato e maestoso, alto da riempire la stanza e tante tante luci.
Il giorno dopo era sabato, fin dal mattino cercai i vivai della zona. Ne trovai un paio che sembravano fare al caso mio. Uscimmo nel primo pomeriggio, Leo appoggiava gran parte delle mie scelte, questa in particolare. Chi non desidera un Natale scintillante, profumato e magico? Simone osservava tutto con i suoi occhioni scuri e curiosi, tentava di afferrare i rami degli abeti e subito ritraeva le manine punte dagli aghetti trattenendo una smorfietta di dolore. L’aroma di resina riempiva l’aria da far arricciare il naso. Tra tutti gli alberi io cercavo “lui”, l’abete che non avevo avuto nel Natale del passato. Lo trovai che si era fatto già buio e i nostri stomaci reclamavano una cena sostanziosa e calda. Con il nostro albero
SIMONE TENTAVA DI AFFERRARE I RAMI E SUBITO RITRAEVA LE MANINE PUNTE DAGLI AGHETTI
legato sul portapacchi ci fermammo lungo la strada del ritorno in una piccola trattoria per una zuppa e una cioccolata calda. Leo era sorridente e Simone guardava tutto come se volesse divorarlo. E io non toglievo lo sguardo da quel tronco dai rami che sembravano braccia piene di aghetti sottili e brevi che fuoriuscivano dal portapacchi.
Il primo passo era fatto, avrei allestito il Natale magico che non avevo mai avuto. Procurare decorazioni, catene luminose e ghirlande era la parte più semplice. Ricordavo di averne messe via in qualche scatolone... Intanto avrei fatto incetta di campanelline, lucciole, lunghi boa colorati, dorati, argentati, soprattutto blu e rossi. Poi, via libera a palline grandi e piccole, Babbi Natale, figure in vetro, trasparenti, oggettini vari da appendere qua e là.
Ero euforica e instancabile.
Qualche giorno dopo, l’albero scintillava tra il televisore e la ringhiera della scala in legno che portava al piano superiore, lo scorrimano era rivestito da una ghirlanda verde scuro che riprendeva le foglie del pungitopo punteggiato da bacche rosse e minuscole lucine bianche da sembrare brillanti. Ai piedi dell’albero, quasi nascosta dai rami più bassi faceva capolino la capanna di legno con Maria, Giuseppe, il Bambinello con l’asino e il bue. Conservata dall’infanzia. Quando il buio abbracciava la sera, l’albero si faceva notare anche all’esterno. Era poesia pura ➤