Confidenze

ASPETTERO DOMANI

Ho avuto una vita piena e avventuros­a, per alcuni sono stata un’irresponsa­bile, per altri una donna coraggiosa. A me piace dire di essermi sempre sentita libera di scegliere. E oggi che sono nonna non rinuncio a guardare avanti

- STORIA VERA DI BEATRICE C. RACCOLTA DA ROBERTA GIUDETTI

L’ultima cosa che ricordo di aver percepito, prima di sprofondar­e in un sonno profondo, è stata la voce di uno dei dottori che diceva: «Meglio chiamare la figlia e i nipoti: non supererà la notte». Ecco, lì ho chiuso gli occhi e ho pensato: vorrei salutare tutti prima di andarmene, ma se non ce la farò, pazienza. Loro lo sanno che li amo immensamen­te. Sono pronta. Ho vissuto una vita piena, meraviglio­sa, di cui non cambierei nemmeno un istante.

Sono nata nel febbraio del ‘43, in una cittadina del Trentino, circondata da ridenti montagne e tanto verde. Nonostante il clima ottimale, sin da piccola ho sofferto di problemi respirator­i. Avevo qualcosa ai polmoni, non ho mai capito cosa. Anche i medici, ai tempi, non erano riusciti a fare una diagnosi esatta, a volte l’avevano scambiata per tubercolos­i, ma non lo era.

Un giorno uno specialist­a di Milano convinse i miei genitori a sperimenta­re un certo tipo di operazione che, secondo lui, mi avrebbe aiutata. Impiegai mesi a ristabilir­mi e alla fine dissero che comunque non mi restava molto tempo e che la mia sarebbe stata una vita di privazioni e sacrifici. Dissero a mia madre che avrei dovuto vivere sotto una campana di vetro, al riparo da tutto. Non avrei potuto stare in mezzo alla gente, andare all’università, sposarmi, avere figli. Tutto sarebbe stato un rischio per me. Quando i miei genitori mi prospettar­ono questo scenario avevo poco più di 20 anni e la prima cosa a cui pensai, lo giuro, fu che non volevo morire vergine. Avevo letto così tanti libri e poesie d’amore, che mai avrei potuto accettare di andarmene senza aver provato una tale emozione. E se non avevo abbastanza tempo per conoscere il vero amore, be’, pretendevo per lo meno di assaporare le gioie del sesso. Volevo capire cosa si prova a perdersi fra le braccia di un uomo. Doveva però succedere con un uomo che mi piaceva. Lo volevo bello, prestante e con gli occhi pieni di stelle. Insomma, secondo i medici sarei morta da lì a poco, non mi sembrava di chiedere la luna!

Non fu difficile trovarlo. Si chiamava Alfredo e ogni volta che passavo di fronte al suo ufficio, mi sorrideva e non distogliev­a lo sguardo finché non giravo l’angolo. Mi piaceva come mi faceva sentire. Era

bellissimo. Ed era anche sposato, ma questo per me non comportava un problema perché non avevo alcuna intenzione di farmi coinvolger­e sentimenta­lmente. Volevo solo quello che di solito vogliono i maschi: sesso. U n giorno Alfredo mi invitò a bere un caffè e io accettai. Dopo un’ora di convenevol­i e sorrisi, gli spiegai perché ero lì. «Alfredo» gli dissi prendendog­li una mano, «voglio essere sincera con te. Sono una brava ragazza che non ha mai fatto sesso con nessuno. Mi piacerebbe molto perdere la verginità con te».

Ricordo che il caffè gli andò di traverso e scoppiò a ridere. «Se non vuoi altro» rispose, divertito. Non credo pensasse che stessi parlando sul serio.

Una settimana più tardi ci ritrovammo in una camera d’albergo e lì, con Alfredo, feci l’amore per la prima volta. La prima, la seconda, la decima. Il nostro divenne un appuntamen­to fisso, finché un giorno scoprii di essere incinta. La notizia non mi gettò affatto nella disperazio­ne, anzi. Sarei diventata madre, era qualcosa di stupendo che non avevo previsto. I miei genitori, invece, più che sconvolti dalla notizia, erano preoccupat­i per la mia salute, volevano dissuaderm­i dal portare avanti la gravidanza perché erano sicuri che non sarei sopravviss­uta. «Potresti morire. Noi siamo qui, ti staremo accanto, ma è troppo pericoloso per te».

«Voglio essere libera di scegliere. Questo figlio è solo mio, posso farcela da sola» avevo risposto con arroganza.

Non volevo rinunciare alla possibilit­à di essere madre. Volevo vivere la mia vita fino in fondo, qualsiasi rischio comportass­e. Da Alfredo mi aspettavo una rapida ritirata e così fu. «Sono un uomo sposato, lo capisci?». «Ti ho forse chiesto qualcosa?». Non aggiunse altro, gli importava solamente di non essere coinvolto. Non volevo restare nella mia piccola città e non volevo dipendere dai miei. Preparai la valigia, presi i miei pochi risparmi e mi diressi in stazione. L’idea inizialmen­te era quella di andare a vivere a Milano, in una grande città sicurament­e avrei trovato qualche occasione per lavorare e poter crescere mio figlio. Avevo studiato per fare la maestra, ma mi sarei accontenta­ta di fare la cameriera.

Una volta in stazione però, sfogliando un quotidiano lasciato su una panchina, lessi che all’Università di Roma si stava facendo la storia. A marzo di quell’anno c’era stato un violento scontro a Valle Giulia fra universita­ri e polizia. Gli studenti gettavano banchi e cattedre dalle finestre, occupavano aule, tenevano comizi, gruppi di studio su argomenti ritenuti fino a quel momento tabù. Era il maggio del 1968 e io, piena di speranze e voglia di avventura, presi un treno per Roma.

Una volta arrivata nella grande città non mi persi d’animo e andai a cercare un convitto di suore per ragazze madri. Suor Adele mi trovò una sistemazio­ne e io sentii di avere fatto la scelta giusta. Quello fu uno dei periodi più ricchi della mia vita. Mi ero iscritta alla facoltà di Pedagogia, partecipav­o alle riunioni del comitato studentesc­o, frequentav­o artisti, poetesse, rivoluzion­ari che volevano cambiare il mondo.

La mia pancia cresceva a vista d’occhio e io stavo benissimo.

Ogni tanto la tosse non mi faceva dormire e mi mancava un po’ il fiato, ma poi tutto si sistemava. Al nono mese di gravidanza, la tosse e il respiro corto sparirono: ero guarita. Mia figlia mi stava salvando la vita ancor prima di nascere. Dalle suore c’erano molte ragazze madri, come me. Alcune erano prostitute, come Ada di cui divenni molto amica, altre erano povere ragazze la cui famiglia aveva girato loro le spalle.

Poi nacque Giusy, la mia splendida bambina, e tutte mi diedero una mano. Mi sentivo davvero fortunata.

Abbiamo vissuto a Roma per quattro anni. Sono sempre riuscita a barcamenar­mi, fra supplenze e lavoretti saltuari. E ra il dicembre del 1972, mancava una settimana a Natale. Non lavoravo da quasi un mese, l’ultima supplenza l’avevo fatta a ottobre. Dolores, una ragazza del convitto con cui avevo legato, mi chiese se io e Giusy potevamo andare con lei e la sua bambina al Verano, il cimitero monumental­e. Non mi sembrava una bella gita da far fare alle bambine per Natale, ma lei insistette molto e così andammo. Camminammo a lungo in mezzo alle tombe finché Dolores si fermò. Iniziò a pregare. Lessi il nome della famiglia sulla lapide e feci finta di niente. Dolores sorrideva e accarezzav­a sua figlia.

Una volta a casa, mi spiegò che aveva raccontato alla sua bimba che in quella tomba erano sepolti i suoi nonni. Non era vero, ma desiderava che sua figlia crescesse pensando che anche lei aveva una famiglia, delle radici. Quel gesto mi aveva intenerita e rattristat­a al tempo stesso. Mi aveva fatto pensare ai miei genitori: non avevano mai conosciuto Giusy. Presto anche mia figlia avrebbe

SI CHIAMAVA ALFREDO ED ERA SPOSATO, MA PER ME NON ERA UN PROBLEMA. DOPO UN PO’ SCOPRII DI ESSERE INCINTA

chiesto della sua famiglia. Le avrei raccontato di suo padre senza inventare strane storie. Ma come avrei potuto spiegarle che i suoi nonni erano vivi e io l’avevo sempre tenuta lontana da loro?

Nel giro di pochi giorni presi una decisione: feci i bagagli, abbracciai le suore che mi avevano tanto aiutata, tutte le amiche con cui avevo legato, e con Giusy tornai a casa.

Mia madre per anni ha continuato a ripetere che quello per loro fu il Natale più bello di sempre.

Ripresi in mano la mia vita da dove l’avevo lasciata. Mentre mia figlia imparava a conoscere i nonni che l’adoravano, mi preparai al concorso per diventare maestra nella scuola elementare della mia città e lo vinsi senza troppa fatica. Stavo bene, non avevo più avuto problemi di salute. Mia figlia creFinché sceva che era una meraviglia, avevo un lavoro che adoravo, cosa mi mancava? Ecco, non avevo ancora conosciuto il vero amore.

Poi arrivò Luca e la mia vita divenne davvero completa.

Io e Luca ci siamo amati moltissimo e siamo stati sposati per più di 30 anni. È stato un padre affettuoso e presente per Giusy. Quando sono andata in pensione, mi sono dedicata al volontaria­to, ho scritto libri di poesie, vinto riconoscim­enti, viaggiato e ho goduto di ogni singolo istante insieme a quest’uomo magnifico che è stato il miglior compagno che potessi desiderare. purtroppo si è ammalato e in nove mesi mi ha lasciata sola, ma con il cuore colmo di dolcissimi ricordi e profonda gratitudin­e.

Con il passare degli anni, i miei problemi respirator­i hanno ricomincia­to a bussare fino a togliermi davvero il fiato. Sembrava proprio che fossi sul punto di andarmene per sempre ma, ripeto, ero pronta per raggiunger­e il mio Luca.

Non so cosa sia successo, il parroco stava per darmi la benedizion­e quando miracolosa­mente ho riaperto gli occhi. Mia figlia era lì, a tenermi la mano. Mi hanno mandata a fare la riabilitaz­ione e ora sto di nuovo bene. Anche qui ho incontrato persone stupende. La mia compagna di stanza per esempio, Gabriella, è una donna straordina­ria, siamo diventate grandi amiche.

Credo sia questo che mi trattiene ancora qui, la curiosità della vita, sapere che ogni giorno è un’occasione nuova che può riservare qualcosa di inaspettat­o. Ho spesso incontrato persone che, sapendo come ho vissuto, mi hanno dato dell’irresponsa­bile, altre che mi hanno ammirata per il coraggio. Probabilme­nte avevano tutti ragione, ma io non avrei potuto vivere diversamen­te. Continuo a credere che l’esistenza sia un dono prezioso per cui sia doveroso prendersi dei rischi. Non ci si può rinchiuder­e nell’orticello della propria casa e accontenta­rsi di sopravvive­re. Ci vuole entusiasmo nella vita e non rinunciare mai a guardare oltre. Pertanto vado avanti.

Del resto, se il buon Dio ancora non mi vuole, non sarò io a contraddir­lo, vorrà dire che aspetterò domani.

POI ARRIVÒ LUCA, CHE È STATO UN PADRE AFFETTUOSO PER MIA FIGLIA E UN COMPAGNO PER ME. SIAMO STATI SPOSATI 30 ANNI

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