Io e Margherita
A otto anni per tutti ero una bimba senza madre e quando mio padre mancò spuntò lei. Mi disse di chiamarla zia, non le chiesi mai se lo fosse davvero. Fu la mia unica famiglia, mi fece sentire finalmente a casa. E solo da adulta scoprii la verità
Era una zitella vicina alla sessantina, una donna ossuta e grigia che guidava una vecchia macchina viola e girava con un bel Pastore Tedesco dal pelo lucido
Ero una bambina triste. La gioia che baciava in fronte molti dei miei coetanei sembrava avermi scansata, quasi non ne fossi stata degna. «Velia non ha la mamma» li sentivo sussurrare al mio passaggio nel cortile della scuola parrocchiale, giustificando con quella mancanza non solo il mio umore ma anche la solitudine. A volte, tuttavia, le suore mi assegnavano a dei gruppi di lavoro proprio per rompere quell’abitudine che a loro pareva malsana e, soprattutto, un’anticipazione di altra solitudine in età adulta. Mia madre non era morta, se n’era andata con un altro uomo poco dopo la mia nascita, ma questo l’avrei scoperto alcuni anni dopo, quando anche mio padre avrebbe lasciato questo mondo.
La mia storia comincia da qui, dal momento in cui si trattò di trovare qualcuno a cui affidarmi, perché con la morte di mio padre mia madre decise legalmente che non si sarebbe presa cura di me. Mi cancellò dalla sua vita e io non potei che accettarlo.
Margherita era una zitella vicina alla sessantina. Nonostante questo, i 50 anni che ci separavano vennero superati dal legame di sangue: era l’unica parente in vita che potessi vantare. Quando la vidi la prima volta ero ospite nel convitto, accolta pietosamente dalle suore in attesa di essere assegnata a una famiglia adeguata. Che la famiglia sarebbe stata quella donna ossuta e grigia che guidava una vecchia macchina viola non me lo sarei aspettato, e forse neppure loro.
Il suo stesso ingresso fu una sorpresa: la introduceva un bel Pastore Tedesco dal pelo lucido, che entrò abbaiando nel corridoio seguito dalla sua voce: «C’è nessuno?».
Ricordo bene quel momento: ero in cima alle scale, sul ballatoio, e giocavo con il pulviscolo creato dalla luce che entrava attraverso le lunghe finestre verticali. Il latrato del cane mi spaventò e per un attimo mi sentii precipitare nella storia che avevo letto la sera precedente, di lupi famelici che scendevano dalle montagne. Sussultai, ma mi scoprii anche curiosa: chi poteva mai essere? Vidi suor Adelina arrivare ciabattando dalla cucina. Pulendosi le mani nell’ampio grembiule bianco, si premurò di far passare la donna nel salottino privato dopo averle chiesto chi fosse. Non sentii la risposta. «Un momento soltanto, vado a chiamare la Superiora, aspetti pure qui dentro».
Non passò che un’ora e fui chiamata anche io. Suor Adelina, trattenendo a stento l’eccitazione, mi informò che era arrivata la “nuova mamma” e mi sollecitò a preparare il mio bagaglio. «Stanotte potrai dormire nella tua nuova casa» aggiunse. «Pensa, Velia, non è nemmeno lontana da qui, sta appena fuori dal paese».
Com’era allora che non l’avevo mai vista prima, questa “nuova mamma”? Perché non era mai venuta a trovare me o papà? mi chiedevo. Ma tutte le mie perplessità furono messe da parte dalla strana fretta che tutti sembravano avere di liberarsi di me.
Non mi faceva mancare niente, solo non era capace di grandi slanci affettivi, a parte qualche pacca sulle spalle o un bacio di sfuggita
Così quella stessa mattina caricai la mia valigetta nella sua auto e mi sedetti accanto a lei, che mi squadrò una sola volta senza dire una parola. Il cane si era accomodato nel sedile posteriore e la sua grossa testa si era infilata fra noi due, la lingua di fuori e un respiro ansimante. Non faceva paura, ma certo incuteva rispetto. Un po’come quella donna, pensai, voltandomi a studiarle il profilo. La chioma folta, corta sulla nuca e un po’bombata sulla cima della testa, era grigia. Capivo che era vecchia, sì, ma non riuscivo a determinare quanto, sapevo solo che l’insieme che stavo osservando aveva un che di nobile, di essenziale. Gli occhi, grandi e chiari, erano sormontati da sopracciglia ancora castane e, dato molto interessante, aveva tutti i denti. Pensarla una mamma, tuttavia, mi sembrava assolutamente fuori luogo. Dovette crederlo anche lei, perché entrando in casa mi disse: «Puoi chiamarmi zia Margherita». Margherita colpiva per il fare nervoso e al contempo determinato: era una donna elettrica, che anche mentre parlava dava l’idea di essere collegata alla corrente. Era efficiente dal momento in cui metteva un piede fuori dal letto a quando lo rimetteva sotto le coperte la sera. Per 40 anni era stata segretaria di direzione di una grande azienda e di recente era andata in pensione. Fu quindi a quel ritmo inalterabile che dovetti adeguarmi per i successivi dieci anni, momento in cui la zia ritenne indispensabile che dovessi frequentare l’università e trasferirmi in città.
Il Pastore Tedesco mi guarì dalla tristezza. Brandy, così si chiamava, diventò dal primo giorno il mio compagno di giochi. Nel piccolo giardino sul retro della casa le nostre voci salivano insieme alla gioia di vivere che finalmente scoprivo. Margherita ci guardava dalla finestra con un sorriso sottile che per tanto tempo pensai di circostanza. Non mi faceva mancare niente, solo non era capace di grandi slanci affettivi che esulassero da qualche pacca sulle spalle, un bacio per il compleanno e la mano stretta nella sua quando c’erano da attraversare i viali trafficati della città.
Eppure, per quanto il nutrimento emotivo dovesse essere una parte importante della mia crescita, non mi sentivo sola. In qualche modo mi pareva fossimo simili, un po’ schive di effusioni, io perché non le conoscevo, lei per scelta. E, cosa non da poco, eravamo entrambe innamorate di Brandy, che all’epoca dei miei otto anni ne aveva da poco compiuto uno e che mi fu amico e confidente per tutto il tempo che rimasi con lei. Erano anni particolari, pieni di scoperte che rendevano la vita più semplice. La pensione di Margherita suppliva al necessario e oltre, e per la prima volta mi resi conto che cosa significava davvero sentirsi a casa. Il suo sguardo su di me si era ormai ammorbidito, e perfino le sue pacche sulle spalle erano diventate leggere pressioni che ricordavano le carezze. C’erano giorni che avrei voluto chiederle perché mi avesse voluta con sé, altri che non mi interessava davvero: mi bastava che fosse accaduto. Fuori dalla nostra casa non era cambiato nulla, restavo la bambina senza madre a cui adesso mancava anche il padre, un piccolo caso pietoso che non mi permetteva di farmi amici. Solitaria, dunque, ero rimasta, ma gli interessi di Margherita per la lettura, il giardino e l’arte riempirono gli spazi che avrei forse dovuto dedicare ai miei coetanei. L’università cambiò tutto. La routine quotidiana, la cura di me stessa, gli amici. Quando tornavo a casa, Margherita mi faceva sedere nel tinello e raccontare. Beveva le mie storie, i suoi occhi luminosi e le guance sempre più accese. Si era fatta magra, addirittura più elettrica. Presto capii che qualcosa era cambiato anche dentro di lei. Si ammalò, di quelle malattie che non perdonano e che se la portò via in fretta, senza lasciare il tempo di false speranze. Trascorsi le ultime settimane con lei, imparando a conoscerla meglio quando non sarebbe più servito a niente. Avevo 21 anni ed ero di nuovo sola, ma potevo contare su una piccola rendita e sulla nostra casa. Brandy se n’era andato l’anno precedente. Un giorno il notaio mi chiamò: doveva consegnarmi una lettera. Margherita era davvero mia zia. Era la sorella di mia madre, figlia di un altro padre. Era stata la vergogna a trattenerla dal farsi viva prima della morte di mio padre, unita alla riluttanza che lui stesso aveva mostrato, di permettermi di affezionarmi a lei. Ma la vita è capricciosa e ha strani modi di forzare le scelte. La mia vera madre è morta e l’ho saputo solo molti anni dopo. In quanto a me, ho chiamato mia figlia Margherita, per inserire anche lei nella catena familiare che per me conta di più.