N FINALMENTE FELICE
Dopo dieci anni di matrimonio io e Frank avevamo perso la speranza di diventare genitori, non ci restava che la strada dell’adozione. Ma qualcosa ci tratteneva. Poi avvenne un doppio miracolo
ella penombra di una giornata di giugno aleggia il respiro addormentato di Sofia, 3,200 chili di tenerezza, un batuffolo di sorrisi e fossette. Il miracolo della maternità. Il suo respiro mi culla, capace di sostenermi a mezz’aria, sospesa nel tempo, nella consapevolezza, nel passato. Già, il passato. Lungo più di 12 anni.
Un’attesa dominata dai dubbi e dalle idee contrastanti che per la prima volta mettevano me e mio marito Frank sul filo del rasoio. Ci obbligava a tirar fuori dettagli tenuti nascosti dentro di noi che mai pensavamo avremmo chiamato in causa.
Ci siamo sposati intorno alla trentina, spinti dalle parole di chi ci stava attorno e certi che avremmo comunque coronato tutti i nostri desideri e progetti. “Prima il lavoro, non si fa nulla senza la certezza economica” queste certezze arrivavano da ogni parte, familiari e parenti in primis, fino al punto di frastornarci. Anche se Frank il lavoro ce l’aveva eccome, e anche una carriera già delineata come direttore di una catena di negozi omeopatici ed erboristici e infine un progetto nero su bianco per l’apertura di alcuni centri di agopuntura con personale specializzato. Grandi sogni per grandi progetti e io lo affiancavo in tutto e per tutto.
Frank è appassionato di medicina alternativa e di marketing, ha unito le sue competenze e ne ha tratto un buon guadagno. Avevo quindi la possibilità di cercare la mia strada professionale con calma e nel frattempo diventare sua moglie. Ma gli sguardi di sufficienza, le occhiate di disappunto quando guardavamo qualche annuncio immobiliare o qualche vetrina di arredamento o peggio quando mi hanno scoperta in un atelier di abiti da sposa, sembravano remare contro di noi. Per porre fine a questi atteggiamenti che si infiltravano nelle nostre
on i miei 29 anni e i suoi 32 potevamo rci, ci sentivamo appagati e pronti. Era il momento di pianificare eventuali figli. Passarono anni di tentativi senza risultato
giornate, con la mia laurea farmacistica cominciai a propormi per alcuni annunci e presi a collaborare anche con Frank per il progetto che doveva partire con il benestare dei dirigenti. Alla proposta di un part time in una farmacia vicina a casa, accettai al volo. ➤
Ora che entrambi avevamo un lavoro, con i miei 29 anni e i suoi 32, potevamo sposarci con la benedizione di genitori e congiunti e noi ci sentivamo appagati e felici. Era il momento di vivere appieno la vita di coppia e pianificare eventuali figli. Passarono anni di tentativi senza risultato. Tutto era a posto, dicevano i medici, ma non restavo incinta. In alcuni casi quando non si trovano cause sufficienti per dare risposte o quando si pensa che questa sia la risposta si tira in ballo lo stress, ed è quello che dissero anche a noi, forse per metter la loro anima in pace e irritare la nostra. Rallentammo l’agenda di lavoro e riacquistammo un tempo più lento per noi spostando o delegando alcuni impegni. Passarono mesi e poi anni, eravamo arrivati a sorpassare i dieci con un nulla di fatto, anzi, ultimamente avevamo finito le cose da dirci e anche lo stare insieme non aveva più il sapore di prima. Nel silenzio Frank si rifugiava nelle scartoffie di lavoro, io in letture che abbandonavo dopo poche righe o facevo ricerche su argomenti assurdi pur di allontanare la mente dal presente. Scivolammo a poco a poco di nuovo tra le maglie più fitte delle nostre professioni, uniche capaci di occupare gli spazi di tempi e di cuore e ricompensarci con ottimi livelli aziendali e economici. Ormai una tacita convinzione aleggiava nei nostri occhi anche quando facevamo l’amore: non avremmo mai avuto figli. Se era nostra intenzione allargare la famiglia, il pensiero doveva essere diretto verso l’adozione.
E qui casca l’asino. Vecchio modo di dire quando si incontrano difficoltà che ci mettono alla prova, riferito alla storiella dell’attraversamento su un ponte di un asino che s’impunta e si agita rischiando di cadere. Come siamo cascati noi con le nostre paure in un groviglio che ci ha agitato e facendo uscire dal nostro io angosce e dubbi che fino a quel momento erano dormienti e sommersi e che non avremmo voluto portare alla luce.
Ci siamo scoperti umani e fragili. Impauriti. Guardo il presente: Sofia, capelli biondi e pugnetti all’insù, l’immagine della serenità, si contrappone a quel periodo tormentato in cui facevo fatica spiegare a Frank quello che provavo.
Lui deve avermi letto nel pensiero quella sera, mi prese le mani: «Adriana, non sei la sola sentirti così. Sono indeciso anch’io sull’adozione. E se poi...». Ricordo come ora la sua difficoltà nel pronunciare le parole, i suoi intervalli, i tentennamenti, la voglia di tacere e tenersi tutto dentro. Il timore che io non comprendessi lo rendeva ansioso.
«Adriana, ho paura. Paura che all’improvviso si presenti un familiare o un parente che si porti via il bambino. Non lo sopporterei». Non gli importava se fosse successo dopo 15 giorni o 15 anni o mai, Frank avrebbe vissuto col magone ogni giorno, non sarebbe servito neppure assicurarci che il bimbo in questione non aveva congiunti in vita. Avrebbe fatto i conti con l’apprensione sempre. Lo abbracciai e cercai il coraggio a mia volta di dirgli i miei dubbi. Sapevo che mi avrebbe compreso, dovevo fidarmi di lui come lui aveva fatto con me. «Anch’io ho paura Frank e mi vergogno tanto. Ho paura di non riuscire ad amare un bambino non mio. Mi dispiace, Frank». Mi ripresi, cercai di spiegare, confermai che gli avrei voluto bene, certo, lo avrei cresciuto al meglio, non gli sarebbero mancate le migliori attenzioni, né l’affetto, ma non mi sarei sentita la sua mamma.
Non avevo il coraggio di ammettere che mi sarei
h’io ho paura Frank e mi vergogno . Ho paura di non riuscire ad amare un bambino non mio, di non sentirmi la sua mamma» ammisi