Confidenze

N FINALMENTE FELICE

Dopo dieci anni di matrimonio io e Frank avevamo perso la speranza di diventare genitori, non ci restava che la strada dell’adozione. Ma qualcosa ci tratteneva. Poi avvenne un doppio miracolo

- STORIA VERA DI ADRIANA F. RACCOLTA DA DANIELA BALESTRERO

ella penombra di una giornata di giugno aleggia il respiro addormenta­to di Sofia, 3,200 chili di tenerezza, un batuffolo di sorrisi e fossette. Il miracolo della maternità. Il suo respiro mi culla, capace di sostenermi a mezz’aria, sospesa nel tempo, nella consapevol­ezza, nel passato. Già, il passato. Lungo più di 12 anni.

Un’attesa dominata dai dubbi e dalle idee contrastan­ti che per la prima volta mettevano me e mio marito Frank sul filo del rasoio. Ci obbligava a tirar fuori dettagli tenuti nascosti dentro di noi che mai pensavamo avremmo chiamato in causa.

Ci siamo sposati intorno alla trentina, spinti dalle parole di chi ci stava attorno e certi che avremmo comunque coronato tutti i nostri desideri e progetti. “Prima il lavoro, non si fa nulla senza la certezza economica” queste certezze arrivavano da ogni parte, familiari e parenti in primis, fino al punto di frastornar­ci. Anche se Frank il lavoro ce l’aveva eccome, e anche una carriera già delineata come direttore di una catena di negozi omeopatici ed erboristic­i e infine un progetto nero su bianco per l’apertura di alcuni centri di agopuntura con personale specializz­ato. Grandi sogni per grandi progetti e io lo affiancavo in tutto e per tutto.

Frank è appassiona­to di medicina alternativ­a e di marketing, ha unito le sue competenze e ne ha tratto un buon guadagno. Avevo quindi la possibilit­à di cercare la mia strada profession­ale con calma e nel frattempo diventare sua moglie. Ma gli sguardi di sufficienz­a, le occhiate di disappunto quando guardavamo qualche annuncio immobiliar­e o qualche vetrina di arredament­o o peggio quando mi hanno scoperta in un atelier di abiti da sposa, sembravano remare contro di noi. Per porre fine a questi atteggiame­nti che si infiltrava­no nelle nostre

on i miei 29 anni e i suoi 32 potevamo rci, ci sentivamo appagati e pronti. Era il momento di pianificar­e eventuali figli. Passarono anni di tentativi senza risultato

giornate, con la mia laurea farmacisti­ca cominciai a propormi per alcuni annunci e presi a collaborar­e anche con Frank per il progetto che doveva partire con il benestare dei dirigenti. Alla proposta di un part time in una farmacia vicina a casa, accettai al volo. ➤

Ora che entrambi avevamo un lavoro, con i miei 29 anni e i suoi 32, potevamo sposarci con la benedizion­e di genitori e congiunti e noi ci sentivamo appagati e felici. Era il momento di vivere appieno la vita di coppia e pianificar­e eventuali figli. Passarono anni di tentativi senza risultato. Tutto era a posto, dicevano i medici, ma non restavo incinta. In alcuni casi quando non si trovano cause sufficient­i per dare risposte o quando si pensa che questa sia la risposta si tira in ballo lo stress, ed è quello che dissero anche a noi, forse per metter la loro anima in pace e irritare la nostra. Rallentamm­o l’agenda di lavoro e riacquista­mmo un tempo più lento per noi spostando o delegando alcuni impegni. Passarono mesi e poi anni, eravamo arrivati a sorpassare i dieci con un nulla di fatto, anzi, ultimament­e avevamo finito le cose da dirci e anche lo stare insieme non aveva più il sapore di prima. Nel silenzio Frank si rifugiava nelle scartoffie di lavoro, io in letture che abbandonav­o dopo poche righe o facevo ricerche su argomenti assurdi pur di allontanar­e la mente dal presente. Scivolammo a poco a poco di nuovo tra le maglie più fitte delle nostre profession­i, uniche capaci di occupare gli spazi di tempi e di cuore e ricompensa­rci con ottimi livelli aziendali e economici. Ormai una tacita convinzion­e aleggiava nei nostri occhi anche quando facevamo l’amore: non avremmo mai avuto figli. Se era nostra intenzione allargare la famiglia, il pensiero doveva essere diretto verso l’adozione.

E qui casca l’asino. Vecchio modo di dire quando si incontrano difficoltà che ci mettono alla prova, riferito alla storiella dell’attraversa­mento su un ponte di un asino che s’impunta e si agita rischiando di cadere. Come siamo cascati noi con le nostre paure in un groviglio che ci ha agitato e facendo uscire dal nostro io angosce e dubbi che fino a quel momento erano dormienti e sommersi e che non avremmo voluto portare alla luce.

Ci siamo scoperti umani e fragili. Impauriti. Guardo il presente: Sofia, capelli biondi e pugnetti all’insù, l’immagine della serenità, si contrappon­e a quel periodo tormentato in cui facevo fatica spiegare a Frank quello che provavo.

Lui deve avermi letto nel pensiero quella sera, mi prese le mani: «Adriana, non sei la sola sentirti così. Sono indeciso anch’io sull’adozione. E se poi...». Ricordo come ora la sua difficoltà nel pronunciar­e le parole, i suoi intervalli, i tentenname­nti, la voglia di tacere e tenersi tutto dentro. Il timore che io non comprendes­si lo rendeva ansioso.

«Adriana, ho paura. Paura che all’improvviso si presenti un familiare o un parente che si porti via il bambino. Non lo sopportere­i». Non gli importava se fosse successo dopo 15 giorni o 15 anni o mai, Frank avrebbe vissuto col magone ogni giorno, non sarebbe servito neppure assicurarc­i che il bimbo in questione non aveva congiunti in vita. Avrebbe fatto i conti con l’apprension­e sempre. Lo abbracciai e cercai il coraggio a mia volta di dirgli i miei dubbi. Sapevo che mi avrebbe compreso, dovevo fidarmi di lui come lui aveva fatto con me. «Anch’io ho paura Frank e mi vergogno tanto. Ho paura di non riuscire ad amare un bambino non mio. Mi dispiace, Frank». Mi ripresi, cercai di spiegare, confermai che gli avrei voluto bene, certo, lo avrei cresciuto al meglio, non gli sarebbero mancate le migliori attenzioni, né l’affetto, ma non mi sarei sentita la sua mamma.

Non avevo il coraggio di ammettere che mi sarei

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