Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Io, la pensione dei Mille, gli amici e gli americani di Napoli

Lo showman racconta la sua prima giovinezza fra piazza Amedeo e Posillipo

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damento. E lui, poveretto, vedendoci, scappava a nasconders­i sotto i tavoli!

E poi c’era la mia «collezione» di vecchi: tantissimi anziani che si erano ritirati lì per trascorrer­vi gli ultimi anni della loro vita. Io li adoravo.

Fra lo stupore dei miei coetanei, passavo pomeriggi interi ad ascoltarli. È bizzarro: ho sempre amato le storie dei vecchi e ora sono io a raccontare... Vorrà dire qualcosa?

Comunque, tra i miei preferiti c’era il professor Battista di Larino (in provincia di Campobasso). Era un socialista convinto, che per tutta la vita aveva lavorato come medico di bordo. Mi parlava di tutti i posti incredibil­i che aveva visitato, da Rio De Janeiro alle Cascate del Niagara, ma soprattutt­o si dilungava sulle visite mediche che aveva effettuato, con dettagli davvero pittoresch­i. Indimentic­abile il racconto del suo incontro con il marinaio con il membro più grande che avesse mai visto.

«Tirati giù le mutande» gli aveva ordinato. «Signor tenente, è meglio di no.» «Io son o m e d i co , d e vo ve d e - re...» «Dottò, ma non ce n’è bisogno», aveva replicato il ragazzo, arrossendo per l’imbarazzo. «Basta! Io sono tenente medico e ti ordino di farmi vedere cosa tieni là nel mezzo!» Il marinaio timidament­e aveva obbedito, lasciando il dottore completame­nte sconvolto. «Io rimasi impression­ato per chillu là...» mi raccontava.

Io adoravo il professor Battista. Essendo socialista, si lasciava spesso andare a grandi sfuriate contro tutti i re del mondo, irritando non poco altri vecchi pensionant­i che invece erano monarchici o nostalgici fascisti. Alla Pensione dei Mille non mancavano neppure a l c uni r a ppresentan­ti del l a vecchia nobiltà, come la duchessa di Serracapri­ola o il duca di San Donato, figlio quest’ultimo di un ex sindaco di Napoli sul quale gli anziani di sinistra si divertivan­o a raccontare mille storielle. Per esempio, vociferava­no che il sindaco ricevesse i suoi clienti «’ncoppe ’o càntaro» (cioè «sul vaso da notte»).

Nella grande sala da pranzo, ognuno aveva il suo tavolo: io stavo sempre con le estetiste, bravissime ragazze di qualche anno più grandi di me. A volte si fermava a mangiare con noi anche qualche amico di passaggio. Insieme con gli altri ragazzi, organizzav­amo scherzi di ogni tipo ai danni degli ospiti. La pensione non era il massimo della pulizia, e noi ci divertivam­o a dirottare gli scarafaggi nelle camere altrui, incanaland­oli in un vero e proprio percorso meticolosa­mente costruito. Il giorno dopo le urla delle duchesse facevano tremare l’aria: «Scarafaggi! Ci sono gli scarafaggi!».

Alla Pensione dei Mille ho conosciuto anche il mio grande amico Gerardo Gargiulo. Insieme facevamo gli americani per le strade di Napoli, suscitando le critiche di Mario Acosta y Gonzales, uno studente messicano simpaticis­simo che però non di ger i va l a nostr a passione per i gringos. C’ho messo cinquant’anni per ritrovare Mario e da poco ce l’ho fatta, grazie a un ristorator­e messicano. Ci siamo sentiti recentemen­te, con grande commozione, e promessi che ora non ci perderemo più!

A Napoli conservo ancora tanti amici conosciuti in quel periodo, a cominciare dalla colonia comunista che ruotava intorno a Giancarlo Cosenza, figlio di uno dei responsabi­li del PCI napoletano, un grandissim­o architetto che teneva un leone sul terrazzo di casa. Io e Gerardo litigavamo continuame­nte con gli amici di sinistra, Marco e Cicci Lai. A quei tempi la separazion­e era netta: o comunista o fascista, non c’erano vie di mezzo. Noi, invece, eravamo filo-americani, ed era tutt’altro che semplice far passare questo concetto, anche perché eravamo gli unici.

A quei tempi gli americani erano ancora a Napoli, a Posillipo. Finito il lavoro, si ritrovavan­o nei loro locali, fra viale Manzoni e via Caravaggio. Parcheggia­vano le loro lunghissim­e Cadillac lungo la strada e bastava passare di lì per sentirsi un po’ negli States. Frequentav­o spesso quei bar con Gerardo, entrambi vestiti all’americana. Bevevamo pinte e pinte di birra, ascoltavam­o la loro musica e speravamo che qualcuno scambiasse per americani anche noi.

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