Corriere del Mezzogiorno (Campania)
PUNTIAMO A MIGLIORARE LA SPESA
Ronald Coase, premio Nobel per l’Economia, diceva (lo scrisse anche): «Se si torturano i dati a sufficienza, alla fine la natura confesserà». Appena sfornati, i numeri relativi alla spesa per la cultura nelle Regioni del Mezzogiorno offerti dal Rapporto Svimez chiedono qualche riflessione interpretativa. Per sgombrare il campo dal morbo dei nostri secoli, va detto con forza che non si tratta di una gara, e che chi spende di più non è necessariamente virtuoso o, al contrario, sprecone. Che i professionisti della cultura, così come gli analisti, rilevino il basso livello di spesa e le sue massicce riduzioni è del tutto comprensibile: il comparto percepisce le proprie potenzialità, le coagula in desideri ma non riesce a trasformarle in fatti reali, e se ne duole. Lo sanno tutti, rispetto agli altri Paesi europei l’Italia spende una proporzione negligibile del bilancio pubblico per l’arte e la cultura; nel confronto tra le aree del nostro territorio il Mezzogiorno ne risulta comunque indebolito da un calo (il Rapporto Svimez parla esplicitamente di «crollo») superiore al declino che ha toccato anche le Regioni settentrionali e centrali nel periodo che va dal 2000 al 2013. Anni in cui è capitato di tutto e che hanno assistito al dipanarsi di una crisi economica che segnala l’estinguersi lento e deciso del paradigma manifatturiero. Paradossalmente, in un quadro così corrusco e imprevedibile la cultura emerge gradualmente come il più credibile snodo di valore.
A ben guardare, i dati aggregano voci di spesa a dir poco eterogenee: non soltanto musei e teatri, archivi e cinema, che per propria natura sono in confrontabili e del tutto diversi per dimensioni, struttura, risorse umane e pubblico, ma anche piscine, stadi, centri polisportivi e giardini che hanno certamente un valore anche culturale ma rischiano di introdurre sottili e non trascurabili deformazioni nella lettura dei dati. In ogni caso la questione è molto delicata, se consideriamo da una parte che il sostegno finanziario statale è ritenuto una sorta di «premio» per la qualità e dunque la sua riduzione appare un sintomo di disinteresse, indifferenza e ignoranza.
La cultura non è (non deve essere) un bene di lusso, e una recente legge ne ratifica formalmente la natura di servizio pubblico essenziale. Pur riconoscendo con piena convinzione la pertinenza del sostegno pubblico ai diversi livelli giurisdizionali, ci si dovrebbe chiedere se il sussidio in denaro sia lo strumento più efficace per sostenere la produzione e la diffusione della cultura presso la comunità territoriale (magari finendola una volta buona con la servile e retrograda passione per i turisti di massa). Il Mezzogiorno paga a caro prezzo decenni di luoghi comuni, palliativi, interventi più rapaci che incentivanti, e si trova a subire dinamiche economiche e finanziarie penalizzanti, più che le altre aree del Paese. Non è detto, tuttavia, che accrescere la spesa pubblica possa affrontare questi problemi in modo efficace.
Al sistema culturale del Mezzogiorno gioverebbe una sistematica spesa infrastrutturale (anche la spesa in conto capitale, già molto bassa di per sé, ha subito al Sud un declino maggiore), un indifferibile adeguamento tecnologico, il riassorbimento del capitale umano che si forma altrove e si colloca sul mercato del lavoro in altre aree del Paese, la facilitazione dell’accesso al credito, la spinta all’internazionalizzazione. Una spesa pubblica intelligente dovrebbe mirare a rendere la cultura sempre più sostenibile nel corso del tempo, quando l’assetto attuale della spesa finisce per garantirne (poco) la sopravvivenza e per atrofizzarne (molto) la capacità di affrontare una società sempre più in cerca di contenuti e di identità. Prima delle dimensioni, proviamo a cambiare le modalità; solo così la cultura può diventare un servizio pubblico essenziale, ossia disponibile per tutti in ogni area del territorio.
Le soluzioni alla crisi Accrescere la spesa pubblica? Non è detto che sia un modo efficace per affrontare i problemi