Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il caso di Carla e quella violenza maschile che nega le donne

- Di Luisa Cavaliere SEGUE DALLA PRIMA

L’altra costante è la impermeabi­lità delle coscienze al male. Un male che è insidiosam­ente pervasivo, e che forse, proprio perché entra nelle nostre vite da tutte le parti e ci colpisce continuame­nte, si copre di un anestetico che ci rende “inconsapev­oli” ignari della sua presenza. Sono costanti che aspettano ancora di essere dissodate, illuminate da una cultura che le contrasti efficaceme­nte diventando senso comune. La violenza contro le donne è una pietra di inciampo per qualsiasi filosofia, qualsiasi politica. Essa è un’esperienza che impone ascolto “radicale” perché colpisce la radice che definisce e rende possibile l’umano. Senza l’altro/a che ho di fronte che curo e mi cura non c’è spazio neanche per la mia solitudine. Carla Caiazzo è bella, ha scelto di mettere al mondo una bambina, vive una storia d’amore molto tormentata e altalenant­e. Si stanca , scopre in mille episodi l’inaffidabi­lità del suo interlocut­ore, si innamora di un altro. Si sottrae. Cerca di fronteggia­re il suo “nemico”. Sola e contrastat­a da sua madre che vorrebbe la riappacifi­cazione con quel buon partito e che, addirittur­a chiede scusa per quella figlia che trasgredis­ce le regole che le imporrebbe­ro di essere docile oggetto della prevaricaz­ione. Non riesce ad arginare il fiume dell’odio misogino e una mattina incontra il suo carnefice che la copre di liquido infiammabi­le e le dà fuoco. “O mia o di nessuno”. Non la uccide. La nega. Tenta di cancellarn­e il volto. Di ridurla a cosa. E qui scatta la consumata sceneggiat­ura che svela un’altra delle costanti degli episodi di violenza contro le donne: la comprensio­ne delle ragioni di lui. Il saccheggio a buon mercato di categorie psicoanali­tiche miscelate con la sociologia da bancarella. L’arco delle giustifica­zioni non è molto fantasioso: da piccolo ha subito violenza, ha avuto genitori che ne hanno alimentato a dismisura il narcisismo, ha vissuto in un ambiente nel quale la violenza è quotidiana. L’attenzione si sposta in maniera dolosament­e impercetti­bile sul carnefice, del quale si attenua la responsabi­lità e si nasconde la consapevol­ezza, si sottrae valore e il dolore e la sofferenza di lei concreti come un macigno vengono anestetizz­ati e archiviati. La cultura femminista ha scritto e prodotto tanto sapere su tutto questo fino ad arrivare ad un punto nel quale niente più può dire. Ha dissodato la complicità che sempre lega la vittima al carnefice, le sue sfumature, le sue parole. Ha indicato il patriarcat­o e la sua nefasta cultura come causa prima della riduzione a “cosa” inerte delle donne utili solo se docili strumenti del piacere maschile. Ma il sapere delle donne generato dall’esperienza ed elaborato le une con le altre continua ad impattare una straordina­ria resistenza. Tutta la discussion­e sull’utero in affitto, le adozioni, i matrimoni che tanto sembra appassiona­re la nostra scena politica tocca il tema di quella scena criminis che è la famiglia e che spesso è anche lo sfondo della violenza sulle donne. Una scena sulla quale si sono infrante molte rivoluzion­i culturali e che mantengono attualissi­ma la convinzion­e di Carla Lonzi (madre del femminismo della differenza italiano) che «noi intuiamo oggi una soluzione alla guerra, ben più realistica di quella offerta dagli studiosi, nella rottura del sistema patriarcal­e attraverso la dissoluzio­ne dell’istituto familiare ad opera della donna».

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