Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il caso di Carla e quella violenza maschile che nega le donne
L’altra costante è la impermeabilità delle coscienze al male. Un male che è insidiosamente pervasivo, e che forse, proprio perché entra nelle nostre vite da tutte le parti e ci colpisce continuamente, si copre di un anestetico che ci rende “inconsapevoli” ignari della sua presenza. Sono costanti che aspettano ancora di essere dissodate, illuminate da una cultura che le contrasti efficacemente diventando senso comune. La violenza contro le donne è una pietra di inciampo per qualsiasi filosofia, qualsiasi politica. Essa è un’esperienza che impone ascolto “radicale” perché colpisce la radice che definisce e rende possibile l’umano. Senza l’altro/a che ho di fronte che curo e mi cura non c’è spazio neanche per la mia solitudine. Carla Caiazzo è bella, ha scelto di mettere al mondo una bambina, vive una storia d’amore molto tormentata e altalenante. Si stanca , scopre in mille episodi l’inaffidabilità del suo interlocutore, si innamora di un altro. Si sottrae. Cerca di fronteggiare il suo “nemico”. Sola e contrastata da sua madre che vorrebbe la riappacificazione con quel buon partito e che, addirittura chiede scusa per quella figlia che trasgredisce le regole che le imporrebbero di essere docile oggetto della prevaricazione. Non riesce ad arginare il fiume dell’odio misogino e una mattina incontra il suo carnefice che la copre di liquido infiammabile e le dà fuoco. “O mia o di nessuno”. Non la uccide. La nega. Tenta di cancellarne il volto. Di ridurla a cosa. E qui scatta la consumata sceneggiatura che svela un’altra delle costanti degli episodi di violenza contro le donne: la comprensione delle ragioni di lui. Il saccheggio a buon mercato di categorie psicoanalitiche miscelate con la sociologia da bancarella. L’arco delle giustificazioni non è molto fantasioso: da piccolo ha subito violenza, ha avuto genitori che ne hanno alimentato a dismisura il narcisismo, ha vissuto in un ambiente nel quale la violenza è quotidiana. L’attenzione si sposta in maniera dolosamente impercettibile sul carnefice, del quale si attenua la responsabilità e si nasconde la consapevolezza, si sottrae valore e il dolore e la sofferenza di lei concreti come un macigno vengono anestetizzati e archiviati. La cultura femminista ha scritto e prodotto tanto sapere su tutto questo fino ad arrivare ad un punto nel quale niente più può dire. Ha dissodato la complicità che sempre lega la vittima al carnefice, le sue sfumature, le sue parole. Ha indicato il patriarcato e la sua nefasta cultura come causa prima della riduzione a “cosa” inerte delle donne utili solo se docili strumenti del piacere maschile. Ma il sapere delle donne generato dall’esperienza ed elaborato le une con le altre continua ad impattare una straordinaria resistenza. Tutta la discussione sull’utero in affitto, le adozioni, i matrimoni che tanto sembra appassionare la nostra scena politica tocca il tema di quella scena criminis che è la famiglia e che spesso è anche lo sfondo della violenza sulle donne. Una scena sulla quale si sono infrante molte rivoluzioni culturali e che mantengono attualissima la convinzione di Carla Lonzi (madre del femminismo della differenza italiano) che «noi intuiamo oggi una soluzione alla guerra, ben più realistica di quella offerta dagli studiosi, nella rottura del sistema patriarcale attraverso la dissoluzione dell’istituto familiare ad opera della donna».