Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Addio a Stelio Maria Martini Poeta visivo e intellettuale che interpretò l’avanguardia
«Tra gli undici e i quindici anni pervenni alla certezza che qualunque cosa si fosse data nel mio futuro, io sarei stato comunque quel che in altri tempi si sarebbe detto un letterato». Così scriveva Stelio Maria (al secolo Crescenzo) Martini, in una nota autobiografica, pubblicata in un libro su di lui, che andammo componendo insieme. Il primo marzo scorso, Martini se n’è andato, lasciando un vuoto incolmabile, come sem presidice eco medi fatto è, soprattutto in tutte le persone che l’hanno amato, i suoi cari, ma anche i suoi amici, che erano, a vario titolo, quasi sempre anche i suoi compagni di avventure estetiche.
Ricordo che durante una delle nostre tantissime con- versazioni pomeridiane, nel suo studio, a casa sua, tra una boccata e l’altra di toscano, rigorosamente aspirato, egli mi comunicò quella che è una semplice, ma cristallina e incontrovertibile verità :« Credo che gli esseri umani, alla fine, fanno sempre quello che vogliono». Ed egli aveva fatto, alla fine, quello che aveva voluto, il letterato, nel senso più ampio della parola, nel senso, cioè, di persona dedita alle lettere, all’uso raffinato e prezioso della parola, dell’esercizio, quindi, del pensiero. Non ha mancato di notarlo il sacerdote durante l’omelia per il suo funerale, il quale opportunamente ha parlato di una sua esistenza letteraria, quasi una vita parallela, aggiungo io, là dove la letteratura va comunque opportunamente intesa come esercizio memoriale, ovvero come confronto conti- nuo con la dialettica vita/ morte.
Ci eravamo conosciuti circa trenta anni fa, in occasione della pubblicazione della sua Breve storia dell’avanguardia, ma le nostre famiglie erano “vicine” da generazioni: suo padre era grande amico di un mio prozio e mio padre era intimo del suo compianto fratello Carlo. Ancora ricordi, quindi, e ancora letteratura, nel senso di esercizio memoriale. Eppure, Martini è stato un letterato sui generis, carico di quell’ideologia millenaristica secondo cui la letteratura lineare, quella ancora in voga su un piano meramente consumistico, era appunto consegnata a un passato archivistico. Questa sua posizione lo relegava in una condizione di una tale intransigenza, da considerare tutto quello che era accaduto dopo l’Ulisse di Joyce come un incidente commerciale. E tale considerava la cosiddetta neo-avanguardia dell’ufficialità, così legato com’era al parametro verbo-visivo. Mi ripeteva sempre che per lui fondamentale era stata la lezione di Marinetti, del paroliberismo e delle avanguardie storiche, così come l afrequentazione dei suoi amici pittori, su tutti di Mario Persico, del quale aveva una immensa stima. Sarebbe auspicabile che la città di Napoli potesse ricordarlo almeno ora che non c’è più, cercando di recuperare una colpevole dimenticanza verso un suo “figlio”, che era noto e apprezzato ben oltre i confini regionali e nazionali. Comunque, ciò che resterà per i tempi a venire saranno le sue opere, inimitabili per originalità e profondità di senso.