Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Due Gallerie, miseria e nobiltà
Parallelo tra la «Vittorio Emanuele» e la «Umberto»
«Quel l a di Napoli è pi ù bella». Quando sento dire questa frase dai miei amici napoletani in visita a Milano, il naso in su ad ammirare il centro dell’esagono della Galleria Vittorio Emanuele, vorrei mettermi a piangere. È il momento in cui mi sento più lont a no, non t a nto da Napoli , quanto dai miei concittadini. La Galleria di Napoli è in preda al degrado. Quella di Milano funziona.
«Quella di Napoli è più bella». Quando sento dire questa frase dai miei amici napoletani in visita a Milano, il naso in su ad ammirare il centro dell’esagono della Galleria Vittorio Emanuele, vorrei mettermi a piangere.
È il momento in cui mi sento più lontano, non tanto da Napoli, quanto dai miei concittadini. Perché una frase del genere non potrebbe venire in mente nemmeno se si camminasse indossando gli occhiali per sperimentare la realtà virtuale che Samsung e Mark Zuckerberger hanno lanciato pochi giorni fa.
Lo stato della nostra Galleria a Napoli è il simbolo del degrado e della drammatica assenza di amor proprio della città.
Scomodare la sorella nobile milanese e ragionare sul parallelo tra i due casi può essere utile a tutti. Il restauro dei due monumenti cittadini è infatti avvenuto di recente e quasi in contemporanea. Con la differenza che quello milanese è stato concluso in tempo per l’apertura di Expo, mentre quello napoletano, concluso con mezza galleria dipinta con un colore e mezza con un altro a causa di una banale lite tra condomini inadempienti, ci ha reso il confronto ancora più doloroso. Non è più possibile parlare di divario tra i due casi, perché non vi è una unità di misura in grado di misurarlo. È come tentare di raffrontare due esemplari di uno stessa tipologia di mobile antico, di cui uno è esposto in una galleria d’arte, e l’altro è accatastato in un deposito, pronto per diventare legna da camino.
Proviamo a cercare una causa? Vogliamo ripercorrere la storia per vedere dove si nasconde l’arcano? Procediamo dunque con ordine.
Le due gallerie nascono praticamente nello stesso periodo storico, siamo tra il 1865 e il 1890. In entrambi i casi l’obiettivo è stato quello di realizzare una moderna galleria commerciale. Siamo in una fase di espansione delle economie urbane in tutta Europa e viene naturale lasciarsi ispirare dalle perfette costruzioni in vetro e ferro sorte nel frattempo a Parigi, a Londra o a Bruxelles.
Tra i tanti progetti possibili, si scelgono le proposte pervenute da due ingegneri, giovani ma già affermati, che hanno alle spalle gruppi imprenditoriali pronti ad investire. La natura dei progetti riveste un certo interesse pubblico e i permessi sono complessi da ottenere. Da qui l’idea di intitolarle al Re pro-tempore: Vittorio Emanuele II a Milano, Umberto I a Napoli.
In realtà questa scelta è qualcosa di più di un atto di devozione verso la famiglia Savoia. Il titolo dà infatti diritto a una specie di corsia preferenziale, e volendo fare presto - è la costante di ogni impresa, secola secolorum-con i “regi decreti” si semplificano di molto le procedure, soprattutto laddove si tratta di eseguire degli espropri per evitare di impantanarsi nelle pastoie burocratiche locali.
Va notato che in entrambi i casi l’esigenza pubblica era stata quella di mettere mano ad una urgente bonifica di aree cittadine molto centrali che però versavano ormai in pessime condizioni.
A Milano era infatti da tempo che si invocava una semplificazione del collegamento tra la monumentale piazza Duomo e il Teatro alla Scala, orgoglio cittadino, e si era dunque reso necessario rimuovere in fretta il vecchio quartiere medievale, fatto di un dedalo di viuzze strette e assai poco sicure che occupava lo spazio dove appunto sarebbe poi sorta la Galleria.
A Napoli l’obiettivo era sostanzialmente il medesimo, ma solo un tantino più urgente. Basti ricordare che nel malfamato quartiere tra via Toledo e il Maschio Angioino tra il 1835 e il 1883 erano scoppiate ben 9 epidemie di colera e anche solo transitare per la zona era altamente sconsigliato, a meno che non si stessero cercando esperienze insolite in quella che era, per l’epoca, una intensa movida notturna.
Non a caso la società del Risanamento - che si fece carico dell’intervento - inserì il progetto tra le prime cose da fare.
I due progetti furono dunque affidati ad ingegneri esperti di innovazione tecnologica. A Milano toccò al bolognese Giuseppe Mengoni, mentre a Napoli la copertura in ferro e vetro fu progettata da Francesco Paolo Boubèe, noto sia in Italia che in Francia.
Le Gallerie nacquero come primi, emblematici, esempi di collaborazione tra pubblico e privato.
I progetti erano decisamente avveniristici per l’epoca e nella (costosa) soluzione scelta per le coperture evidentemente riecheggiava un respiro internazionale. Ma non tutti sanno che, delle due esperienze, fu l’impresa milanese a finire in gravi difficoltà finanziarie e a fallire lasciando l’opera a metà. A quel punto — e mi sembra, con il senno di poi, il passaggio fortunoso ma anche decisivo della nostra storia — il Re, scomodato a suo tempo per dare il proprio patrocinio, chiamò il Sindaco e gli impose di rilevare l’intera iniziativa per la modica cifra di sette milioni e seicentomila lire dell’epoca. Toccò quindi al Comune proseguire i lavori e completare la costruzione, divenendone l’unico proprietario. In seguito, la storia della Galleria ha continuato ad intrecciarsi con la storia politica, culturale e sociale della città. Con tutti gli alti e bassi che questo comporta. La Galleria fu ad esempio teatro delle cariche della polizia di Bava Beccaris contro i manifestanti della protesta dello stomaco, quindi testimone della nascita del futurismo, ma an- che dei primi fasci e delle giornate di Festa per la Liberazione, luogo di ritrovo degli uomini di spettacolo e dei musicisti in attesa di essere scritturati dai teatri della città.
Negli ultimi anni la Galleria Vittorio Emanuele — anche grazie ad Expo, questo va sempre ricordato — ha riguadagnato un ruolo centrale nella vita commerciale e turistica della città. Hanno ripreso vigore progetti alberghieri di altissimo livello, tra cui il famoso Seven Stars, uno dei più esclusivi 6 stelle al mondo, con sette suite che affacciano direttamente in Galleria.
Stesso discorso vale per la ristorazione. Il Savini, dopo anni difficili, è tornato ai vecchi splendori e la cornice dei bar d’epoca — come il Biffi, il Camparino e gli altri bistrò sempre pieni — rende ancora più plastica la presenza delle grandi marche — Vuitton, Prada, Versace, Tod’s — che di buon grado continuano a rinnovare i contratti di affitto, benché questi siano stati triplicati nel corso degli ultimi anni. La Galleria, tuttora totalmente pubblica, rappresenta pertanto uno degli introiti più rilevanti del bilancio cittadino.
Sta dunque in questo aspetto — l’essere totalmente una proprietà pubblica — la ragione di tale successo?
Credo proprio di sì. Almeno questo vale sicuramente per Milano.
Intendiamoci, negli anni lo spirito, a tratti negativo, che si annida nell’impresa privata ha tentato di aggirare le regole pubbliche: sono numerosi i casi di locatari storici che hanno cercato negli anni vie preferenziali o collezionato mille cavilli per passarsi i contratti di affitto calmierato. Ma in questo la giunta Pisapia ha saputo infrangere un tabù e due sentenze del Tar ben assestate hanno ridato al Comune la totale titolarità e la libertà di decidere cosa fare della Galleria.
Oggi al centro della Galleria si trovano quattro piccole zone da cui si può, usando dei discreti cannocchiali, ammirare i parti- colari del restauro. Addirittura è stato ripristinato e aperto a tutti un accesso laterale che consente di salire su un camminamento sospeso tra i tetti e non solo godere di un fantastico panorama sulle due piazze più belle della città ma anche di apprezzare da vicino il dettaglio della copertura in ferro e vetro. Una «high line», ma unica nel suo genere.
La domanda è sempre la stessa: perché noi no?
Sicuramente a Napoli si sarebbe dovuto frenare da tempo il frazionamento della proprietà privata che ha reso gli immobili ingestibili. Così come al contrario andava impedito il monopolio di una sola «marca» — tra l’altro di qualità discutibile e da ogni punto di vista lontana dalla grande tradizione sartoriale napoletana — che monopolizza i negozi e rende la galleria commerciale priva di qualsiasi interesse, a cominciare dalla sua destinazione d’uso originaria, lo shopping. Per non parlare poi della ristorazione. Tavolini messi lì senza criterio, serviti senza cura, infestata dai soliti bar che espongono le onnipresenti vetrinette cariche di babà e panini napoletani, monumento diffuso in ogni angolo della città alla pingue dea dell’abbondanza, madre di tutte le obesità.
Il tema di chi si prenda la responsabilità di gestire quel luogo – stiamo parlando di un monumento — dovrebbe essere di primario interesse in una città moderna. È un tema sia di metodo che di merito. Pesa sicuramente la mancanza di idee. Basti vedere l’incapacità di rendere minimamente vivibile e attraente il porticato di piazza del Plebiscito o l’altra galleria, quella al Museo. Entrambe proprietà pubbliche. I nostri amministratori non riescono ad andare oltre l’idea di un bando pubblico, a cui affidare, messianicamente, la capacità di selezionare operatori economici, secondo criteri di qualità, settore merceologico, solidità imprenditoriale. Eppure quello che servirebbe è un progetto, un’idea forte in grado di coinvolgere i potenziali interlocutori in una grande impresa.
Resta invece il fatto che la Galleria Umberto I è il simbolo della Napoli attuale. Quella a due facce di de Magistris, per metà sguaiata e accomodante, per l’altra metà giacobina e velleitaria.
Io penso che si voglia deliberatamente lasciare la Galleria in questo stato. Che così la si trovi sostanzialmente molto più in linea con lo spirito della città di quanto una certa élite va sostenendo.
La Galleria è il tempio del «laissez faire», questo lo spirito dominante. Non nel senso liberista del termine, ma nella più prosaica versione del chiudere un occhio sempre, ridendoci su o minimizzando quando capita che in Galleria si giochi a pallone, si vandalizzi l’albero di Natale, o si prendano in giro i passanti ignari di dove sono capitati.
Certo oggi è di gran moda parlare di periferie e di quartieri degradati, ma una città deve avere una faccia e un cuore, vale a dire un centro. E al centro del suo centro c’è una Galleria, e questa deve essere bella e accogliente.
Terreste così il salotto di casa vostra?