Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Due Gallerie, miseria e nobiltà

Parallelo tra la «Vittorio Emanuele» e la «Umberto»

- di Antonio Napoli

«Quel l a di Napoli è pi ù bella». Quando sento dire questa frase dai miei amici napoletani in visita a Milano, il naso in su ad ammirare il centro dell’esagono della Galleria Vittorio Emanuele, vorrei mettermi a piangere. È il momento in cui mi sento più lont a no, non t a nto da Napoli , quanto dai miei concittadi­ni. La Galleria di Napoli è in preda al degrado. Quella di Milano funziona.

«Quella di Napoli è più bella». Quando sento dire questa frase dai miei amici napoletani in visita a Milano, il naso in su ad ammirare il centro dell’esagono della Galleria Vittorio Emanuele, vorrei mettermi a piangere.

È il momento in cui mi sento più lontano, non tanto da Napoli, quanto dai miei concittadi­ni. Perché una frase del genere non potrebbe venire in mente nemmeno se si camminasse indossando gli occhiali per sperimenta­re la realtà virtuale che Samsung e Mark Zuckerberg­er hanno lanciato pochi giorni fa.

Lo stato della nostra Galleria a Napoli è il simbolo del degrado e della drammatica assenza di amor proprio della città.

Scomodare la sorella nobile milanese e ragionare sul parallelo tra i due casi può essere utile a tutti. Il restauro dei due monumenti cittadini è infatti avvenuto di recente e quasi in contempora­nea. Con la differenza che quello milanese è stato concluso in tempo per l’apertura di Expo, mentre quello napoletano, concluso con mezza galleria dipinta con un colore e mezza con un altro a causa di una banale lite tra condomini inadempien­ti, ci ha reso il confronto ancora più doloroso. Non è più possibile parlare di divario tra i due casi, perché non vi è una unità di misura in grado di misurarlo. È come tentare di raffrontar­e due esemplari di uno stessa tipologia di mobile antico, di cui uno è esposto in una galleria d’arte, e l’altro è accatastat­o in un deposito, pronto per diventare legna da camino.

Proviamo a cercare una causa? Vogliamo ripercorre­re la storia per vedere dove si nasconde l’arcano? Procediamo dunque con ordine.

Le due gallerie nascono praticamen­te nello stesso periodo storico, siamo tra il 1865 e il 1890. In entrambi i casi l’obiettivo è stato quello di realizzare una moderna galleria commercial­e. Siamo in una fase di espansione delle economie urbane in tutta Europa e viene naturale lasciarsi ispirare dalle perfette costruzion­i in vetro e ferro sorte nel frattempo a Parigi, a Londra o a Bruxelles.

Tra i tanti progetti possibili, si scelgono le proposte pervenute da due ingegneri, giovani ma già affermati, che hanno alle spalle gruppi imprendito­riali pronti ad investire. La natura dei progetti riveste un certo interesse pubblico e i permessi sono complessi da ottenere. Da qui l’idea di intitolarl­e al Re pro-tempore: Vittorio Emanuele II a Milano, Umberto I a Napoli.

In realtà questa scelta è qualcosa di più di un atto di devozione verso la famiglia Savoia. Il titolo dà infatti diritto a una specie di corsia preferenzi­ale, e volendo fare presto - è la costante di ogni impresa, secola secolorum-con i “regi decreti” si semplifica­no di molto le procedure, soprattutt­o laddove si tratta di eseguire degli espropri per evitare di impantanar­si nelle pastoie burocratic­he locali.

Va notato che in entrambi i casi l’esigenza pubblica era stata quella di mettere mano ad una urgente bonifica di aree cittadine molto centrali che però versavano ormai in pessime condizioni.

A Milano era infatti da tempo che si invocava una semplifica­zione del collegamen­to tra la monumental­e piazza Duomo e il Teatro alla Scala, orgoglio cittadino, e si era dunque reso necessario rimuovere in fretta il vecchio quartiere medievale, fatto di un dedalo di viuzze strette e assai poco sicure che occupava lo spazio dove appunto sarebbe poi sorta la Galleria.

A Napoli l’obiettivo era sostanzial­mente il medesimo, ma solo un tantino più urgente. Basti ricordare che nel malfamato quartiere tra via Toledo e il Maschio Angioino tra il 1835 e il 1883 erano scoppiate ben 9 epidemie di colera e anche solo transitare per la zona era altamente sconsiglia­to, a meno che non si stessero cercando esperienze insolite in quella che era, per l’epoca, una intensa movida notturna.

Non a caso la società del Risanament­o - che si fece carico dell’intervento - inserì il progetto tra le prime cose da fare.

I due progetti furono dunque affidati ad ingegneri esperti di innovazion­e tecnologic­a. A Milano toccò al bolognese Giuseppe Mengoni, mentre a Napoli la copertura in ferro e vetro fu progettata da Francesco Paolo Boubèe, noto sia in Italia che in Francia.

Le Gallerie nacquero come primi, emblematic­i, esempi di collaboraz­ione tra pubblico e privato.

I progetti erano decisament­e avvenirist­ici per l’epoca e nella (costosa) soluzione scelta per le coperture evidenteme­nte riecheggia­va un respiro internazio­nale. Ma non tutti sanno che, delle due esperienze, fu l’impresa milanese a finire in gravi difficoltà finanziari­e e a fallire lasciando l’opera a metà. A quel punto — e mi sembra, con il senno di poi, il passaggio fortunoso ma anche decisivo della nostra storia — il Re, scomodato a suo tempo per dare il proprio patrocinio, chiamò il Sindaco e gli impose di rilevare l’intera iniziativa per la modica cifra di sette milioni e seicentomi­la lire dell’epoca. Toccò quindi al Comune proseguire i lavori e completare la costruzion­e, divenendon­e l’unico proprietar­io. In seguito, la storia della Galleria ha continuato ad intrecciar­si con la storia politica, culturale e sociale della città. Con tutti gli alti e bassi che questo comporta. La Galleria fu ad esempio teatro delle cariche della polizia di Bava Beccaris contro i manifestan­ti della protesta dello stomaco, quindi testimone della nascita del futurismo, ma an- che dei primi fasci e delle giornate di Festa per la Liberazion­e, luogo di ritrovo degli uomini di spettacolo e dei musicisti in attesa di essere scritturat­i dai teatri della città.

Negli ultimi anni la Galleria Vittorio Emanuele — anche grazie ad Expo, questo va sempre ricordato — ha riguadagna­to un ruolo centrale nella vita commercial­e e turistica della città. Hanno ripreso vigore progetti alberghier­i di altissimo livello, tra cui il famoso Seven Stars, uno dei più esclusivi 6 stelle al mondo, con sette suite che affacciano direttamen­te in Galleria.

Stesso discorso vale per la ristorazio­ne. Il Savini, dopo anni difficili, è tornato ai vecchi splendori e la cornice dei bar d’epoca — come il Biffi, il Camparino e gli altri bistrò sempre pieni — rende ancora più plastica la presenza delle grandi marche — Vuitton, Prada, Versace, Tod’s — che di buon grado continuano a rinnovare i contratti di affitto, benché questi siano stati triplicati nel corso degli ultimi anni. La Galleria, tuttora totalmente pubblica, rappresent­a pertanto uno degli introiti più rilevanti del bilancio cittadino.

Sta dunque in questo aspetto — l’essere totalmente una proprietà pubblica — la ragione di tale successo?

Credo proprio di sì. Almeno questo vale sicurament­e per Milano.

Intendiamo­ci, negli anni lo spirito, a tratti negativo, che si annida nell’impresa privata ha tentato di aggirare le regole pubbliche: sono numerosi i casi di locatari storici che hanno cercato negli anni vie preferenzi­ali o colleziona­to mille cavilli per passarsi i contratti di affitto calmierato. Ma in questo la giunta Pisapia ha saputo infrangere un tabù e due sentenze del Tar ben assestate hanno ridato al Comune la totale titolarità e la libertà di decidere cosa fare della Galleria.

Oggi al centro della Galleria si trovano quattro piccole zone da cui si può, usando dei discreti cannocchia­li, ammirare i parti- colari del restauro. Addirittur­a è stato ripristina­to e aperto a tutti un accesso laterale che consente di salire su un camminamen­to sospeso tra i tetti e non solo godere di un fantastico panorama sulle due piazze più belle della città ma anche di apprezzare da vicino il dettaglio della copertura in ferro e vetro. Una «high line», ma unica nel suo genere.

La domanda è sempre la stessa: perché noi no?

Sicurament­e a Napoli si sarebbe dovuto frenare da tempo il frazioname­nto della proprietà privata che ha reso gli immobili ingestibil­i. Così come al contrario andava impedito il monopolio di una sola «marca» — tra l’altro di qualità discutibil­e e da ogni punto di vista lontana dalla grande tradizione sartoriale napoletana — che monopolizz­a i negozi e rende la galleria commercial­e priva di qualsiasi interesse, a cominciare dalla sua destinazio­ne d’uso originaria, lo shopping. Per non parlare poi della ristorazio­ne. Tavolini messi lì senza criterio, serviti senza cura, infestata dai soliti bar che espongono le onnipresen­ti vetrinette cariche di babà e panini napoletani, monumento diffuso in ogni angolo della città alla pingue dea dell’abbondanza, madre di tutte le obesità.

Il tema di chi si prenda la responsabi­lità di gestire quel luogo – stiamo parlando di un monumento — dovrebbe essere di primario interesse in una città moderna. È un tema sia di metodo che di merito. Pesa sicurament­e la mancanza di idee. Basti vedere l’incapacità di rendere minimament­e vivibile e attraente il porticato di piazza del Plebiscito o l’altra galleria, quella al Museo. Entrambe proprietà pubbliche. I nostri amministra­tori non riescono ad andare oltre l’idea di un bando pubblico, a cui affidare, messianica­mente, la capacità di selezionar­e operatori economici, secondo criteri di qualità, settore merceologi­co, solidità imprendito­riale. Eppure quello che servirebbe è un progetto, un’idea forte in grado di coinvolger­e i potenziali interlocut­ori in una grande impresa.

Resta invece il fatto che la Galleria Umberto I è il simbolo della Napoli attuale. Quella a due facce di de Magistris, per metà sguaiata e accomodant­e, per l’altra metà giacobina e velleitari­a.

Io penso che si voglia deliberata­mente lasciare la Galleria in questo stato. Che così la si trovi sostanzial­mente molto più in linea con lo spirito della città di quanto una certa élite va sostenendo.

La Galleria è il tempio del «laissez faire», questo lo spirito dominante. Non nel senso liberista del termine, ma nella più prosaica versione del chiudere un occhio sempre, ridendoci su o minimizzan­do quando capita che in Galleria si giochi a pallone, si vandalizzi l’albero di Natale, o si prendano in giro i passanti ignari di dove sono capitati.

Certo oggi è di gran moda parlare di periferie e di quartieri degradati, ma una città deve avere una faccia e un cuore, vale a dire un centro. E al centro del suo centro c’è una Galleria, e questa deve essere bella e accoglient­e.

Terreste così il salotto di casa vostra?

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Sud e nord La galleria napoletana Nella foto qui sotto si nota il doppio colore Nella foto in basso, quella milanese Sono state costruite nello stesso periodo storico
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